Sharon, lo “Scudo di David”

di Aldo Baquis

Una nemesi che nessuno avrebbe potuto prevedere, nemmeno i suoi più acerrimi detrattori. L’uomo che per decenni era stato una “Spada di David” ed aveva fatto ricorso senza remore alla forza per modellare un Medio Oriente a misura di Israele, dal gennaio 2006 sarebbe inesorabilmente rimasto costretto su un lettino di un ospedale di Tel Aviv, inebetito davanti a un televisore ed imboccato da un’infermiera. In questo simile al suo acerrimo rivale, il palestinese Yasser Arafat, spentosi in un ospedale francese quando ormai era ridotto ad una larva umana. La Storia ha talvolta di queste amare, imprevedibili ironie.

Nato nel 1928 in un villaggio ebraico della Palestina sotto Mandato ebraico, Ariel Sharon (Sheinerman) è stato fin dalla prima maturità un personaggio chiave nello Stato di Israele: spesso ammirato dai connazionali, ancora più spesso temuto dai dirigenti del Paese, perfino odiato dalla stampa locale, ma mai sottovalutato. In vecchiaia l’uomo che aveva sempre innescato passioni contrastanti si sarebbe però scoperto, con sua sorpresa, come un “Padre della patria”, espressione di un largo consenso nazionale. Non avrebbe comunque goduto a lungo di questa condizione. All’apice della carriera politica la sua mitca fibra sarebbe stata stroncata da un ictus.
La storia personale di ‘Arik’ (leoncino) Sharon inizia nei campi del villaggio di Kfar Mallal. Il padre Shmuel è un aspro agronomo russo, che costringe il figlio a lavorare nei campi fin da bambino e di notte lo mette a guardia per impedire che i beduini gli rubino il raccolto. Nemmeno con i laburisti ebrei va troppo d’accordo: Arik comprende che nel mondo, per restare a galla, occorre farsi valere. In casa, un solo conforto: il violino del padre, e la musica classica. A 20 anni, Sharon rischia di non vedere la nascita dello Stato di Israele per una grave ferita riportata a Latrun, in una battaglia con la Legione giordana. Ma nel 1953 è già in prima linea: anzi, oltre le linee nemiche, alla guida della Unità 101 incaricata dal premier David Ben Gurion di compiere azioni di ritorsione alle incursioni dei fedayn palestinesi. E la ‘101’ diventa sinonimo di crudeltà: specie dopo la strage di Kybia (Cisgiordania), dove morirono 60 palestinesi.
A Ben Gurion Sharon piace. «Ha solo il difetto di non dire la verità», nota. Tattico militare brillante, Sharon fa carriera: prima nei parà, poi nei carristi. Nel 1967 (Guerra dei Sei Giorni), combatte nel Sinai e con le sue manovre disorienta 16 mila soldati egiziani. Nel 1973 (Guerra del Kippur), è di nuovo nel Sinai: indisciplinato come sempre, eppure alla guida di una testa di ponte che sfonda le linee egiziane. Ma politicamente è a destra: dunque, comprende, l’establishment laburista non gli consentirà di diventare Capo di stato maggiore. Inizia così la grande manovra di aggiramento: sarebbe entrato nella stanza dei bottoni se non per meriti militari, almeno grazie a manovre politiche. È suo il progetto del Likud, la fusione di tutte le liste della destra nazionalista.

Nel 1977 Menachem Begin (Likud) vince le elezioni e nel 1981 nomina Sharon ministro della difesa. La sua figura incute timore nella sinistra. «Circonderà l’ufficio del premier con carri armati», avverte un ministro. «Sharon non si ferma col rosso», avverte il cantante Shalom Hanoch. E i suoi timori si realizzano nel giugno 1982 quando inizia la invasione del Libano, in seguito ad un grave attentato palestinese. Begin vorrebbe una operazione contenuta, ma Sharon marcia su Beirut, da dove espelle Arafat. In settembre c’è il massacro di Sabra e Chatila: migliaia di palestinesi sono massacrati da falangisti libanesi in una zona di Beirut i cui perimetri sono comunque presidiati da Israele. Sharon è costretto ad abbandonare il Ministero della Difesa. Ma l’uomo ha la perseveranza del tessitore. Accetta incarichi ministeriali secondari fino al match elettorale con Ehud Barak (laburista), nel terribile febbraio 2001 insaguinato dagli attentati dell’Intifada palestinese armata. Sharon prevale. Le antenne del vecchio generale gli dicono che dietro al terrorismo c’è Arafat: come il gatto col topo lo intrappola nella Muqata di Ramallah e stringe i Territori in una morsa di ferro. Poi, a malincuore, fa erigere la Barriera di sicurezza. E la violenza palestinese gradualmente cala, fino a cessare. Il Paese gli è grato, e lo conferma premier. Ma negli anni ‘Arik’ ha appreso che la forza può solo fungere da tampone. Per costruire ci vogliono idee nuove: e nel 2005 cancella, con un grandioso colpo di spugna, 25 insediamenti ebraici dalla striscia di Gaza e ne espelle gli 8.000 coloni. Su questa mossa, il Likud si spacca.

Allora Sharon, assieme con Shimon Peres, fonda una nuova lista centrista, Kadima, che avrebbe dovuto procedere nel disimpegno israeliano anche in Cisgiordania, dopo un’auspicata vittoria alle politiche del gennaio 2006.
Ma l’ictus mette fine ai suoi progetti e lo relega melanconicamente in un limbo spettrale: ormai allo stato vegetale, non vivo né morto. Quello che nella letteratura rabbinica è chiamato un ‘Golem’: ossia una creatura che dopo aver servito la propria Nazione come “Spada di David” ed esserne stato lo Scudo vivente, ha ormai terminato la propria missione e va messa da parte.