Nedo Fiano

“Nedo Fiano: era il mio nonno speciale”

di Roberto Zadik
E’ passato poco più di un mese dalla scomparsa di Nedo Fiano z’’l, uno dei testimoni più conosciuti della Shoah italiana e delle sue atrocità. Abbiamo chiesto a suo nipote Uria (Uri) di raccontarci della sua relazione con il nonno. Uri ha 45 anni, si occupa di startup in Israele e in Europa, vive a Venezia con la compagna e due figli dopo aver vissuto tra Milano, Bruxelles e Tel Aviv. In risposta alle domande di una breve intervista Uri ha fornito un ritratto estremamente affettuoso del suo rapporto con suo nonno. 

Un ricordo della personalità di nonno Nedo

Mio nonno- racconta – è sempre stato una persona estremamente vitale e esuberante, puntuale, elegante e formale, profondamente laico e saldamente legato alla sua identità ebraica italiana. Lo ammiravo e mi incuteva soggezione, a livello intimo come nonno e a livello simbolico come sopravvissuto alla Shoah. 
Ai miei occhi il nonno è sempre apparso come un uomo d’analisi e d’azione allo stesso tempo. Uomo d’azione, perché lo vedevo sempre in movimento tra il lavoro e l’impegno sociale; non era facile riuscire a passare del tempo con lui, dal vivo oppure al telefono, e nemmeno in vacanza, dove si immergeva in letture di quotidiani e libri.

Ma in lui vedevo anche un uomo analitico, e per quanto potessero essere brevi le nostre conversazioni, riusciva sempre a farmi osservare o capire qualcosa che altrimenti mi sarebbe sfuggito. Cercavo conforto e conferme a tanti dubbi nelle chiacchierate con il nonno, ma con una specie di disagio. Perché mentre mi preparavo mentalmente al nostro prossimo incontro, molto spesso il pensiero correva a quello che aveva vissuto lui e così facendo i miei problemi, anche quelli più grandi, evaporavano prima ancora di avergliene parlato.

 

Sin da piccolo ero affascinato dal modo di fare del nonno, del rispetto che aveva per il prossimo e dal rispetto che gli altri avevano nei suoi confronti. Pensavo semplicemente che Nedo fosse ben voluto perché divertente (e ai miei occhi, bello e affascinante). Nei ricordi della mia infanzia, il nonno era sempre sorridente, spesso severo, ma sempre positivo. Non sapevo ancora perché avesse un numero tatuato sul braccio, perché al mare non si metteva mai in costume da bagno o perché in spiaggia non mostrava mai le dita nude dei piedi. Solo verso la fine della scuola elementare mi venne spiegato il significato di quel numero. E chiaramente, da quel giorno, il mio sguardo sul nonno è cambiato, ed è cambiato il mio sguardo sull’umanità intera.

 

Da lui ho imparato tanto, attraverso le conversazioni familiari e le testimonianze pubbliche, la determinazione, l’amore per la vita e l’azione, la comprensione del dolore altrui, l’affabilità e la cortesia con chiunque.

Il nonno aveva la capacità di trasmettere positività, ti incoraggiava, anzi, ti spronava! Mi ha insegnato a non aver paura di iniziare qualcosa di nuovo e di non esitare a ricominciare quando necessario. Non so se veramente Nedo fosse così nella sua vita personale e professionale, a me dava l’impressione di essere sempre proiettato al domani (e a quanto di meglio può portare), e non rivolto al passato.

 

Provo a fare un esempio concreto seppur leggero. Tornato da un viaggio in Asia, mostrai ai nonni alcune foto di tramonti spettacolari. Dopo aver osservato in silenzio le foto, il nonno mi guardò negli occhi e sorridendo con la consueta dolce schiettezza disse “Bellissimi i tramonti, ma hai fotografato qualche alba?” Gli risposi di no, non avevo fotografie di albe, e gli chiesi il perché della sua domanda. Il nonno, il sopravvissuto, il testimone, mi rispose “Preferisco l’alba perché è l’inizio di un nuovo giorno”. 

Amante della vita e della risata
Altre due caratteristiche esplicite del nonno erano la sua passione per la vita, dunque l’importanza che dava all’amore, per la famiglia e gli amici, e la voglia di far ridere, non appena se ne presentava l’occasione, anche per strada con gli sconosciuti. Il legame, l’affetto e la capacità di scherzare con i compagni di prigionia gli diedero la forza di sopravvivere. “Mai perdere ottimismo e buon umore, Uri!” A tal proposito, vorrei condividere un aneddoto legato alla mia esperienza nella produzione del documentario Memoria diretto da Ruggero Gabbai.
Il nonno, come sempre puntuale, scese una mattina nella lobby dell’albergo, vicino al campo Auschwitz-Birkenau dove insieme ai sopravvissuti protagonisti di Memoria, ci si incontrava a una certa ora prima di procedere con la registrazione delle testimonianze nei luoghi dell’orrore. Dopo aver atteso qualche minuto ‘di troppo’, il nonno prese il telefono della Reception e iniziò a richiamare all’ordine gli amici sopravvissuti romani ritardatari, telefonando in camera, urlando in tedesco qualcosa come “Alles Juden raus, schnell, schnell!” (Tutti gli ebrei fuori, veloci, veloci!).
Credo che molti come me in sala rimasero di ghiaccio, mentre il nonno e gli altri sopravvissuti ridevano, quasi come dei bambini che finalmente possono dire le parolacce senza paura degli adulti. E il nonno non era l’unico ad avere sviluppato quel tipo di umorismo straziante.
In quei giorni, praticamente ogni sopravvissuto ci sconvolse con almeno una battuta non propriamente leggera, era una sorta di tratto comune. Il messaggio del nonno, e di tutti i testimoni che ebbi la fortuna di conoscere personalmente, è per me chiaro, qualsiasi cosa avvenga, non dobbiamo perdere la capacità di andare avanti, di aiutarci e appena possibile, ridere insieme. 

Il suo rapporto con l’ebraismo

 

Il nonno era legato alle tradizioni, ai riti e ai loro significati in chiave laica. Quindi proverò a rispondere alla tua domanda ragionando su simboli e riti, piuttosto che su credo o fede. La prima cosa a cui penso è quanto mi manca, da anni, essere abbracciati sotto il suo tallet per la Birchat Hakohanim di Yom Kippur, nella sinagoga ‘di famiglia’ di via Eupili. Per me, non credente, Yom Kippur rappresenta un momento di unione con la famiglia, con la comunità, un simbolo di forza e di protezione. Ecco, non so se nelle sue preghiere si rivolgesse a Dio, ai suoi cari scomparsi o ai suoi cari vivi, ma tant’è che sentiva il bisogno di partecipare completamente al rito, digiuno compreso.

 

Il nonno si commuoveva sempre all’inizio del Seder di Pesach. E noi con lui, quando paragonava il racconto degli ebrei in fuga dall’Egitto verso la Terra Promessa alla libertà riacquistata dal popolo ebraico dopo la Shoah e la creazione dello Stato moderno di Israele. Ma ancor più dure, forti, erano per me le sue parole quando attualizzava il messaggio, ricordandoci con orrore che mentre noi eravamo felici riuniti in famiglia per il Seder, la barbarie umana continuava sistematicamente a mietere vittime in luoghi vicinissimi come la ex Jugoslavia, e lontani, come in Ruanda. Il messaggio era implicito, dobbiamo testimoniare e agire per evitare agli altri quello che i nostri cari subirono, non possiamo restare indifferenti, non possiamo voltarci dall’altra parte.

La voce del nonno era intonata, calda e forte, ascoltarlo parlare e ancora di più cantare secondo il rito italiano durante il Seder o qualsiasi altro avvenimento, era emozionante, ed era a suo modo, per me, una testimonianza della vita che visse prima della Shoah. Cantava ad alta voce, il nonno, forse per rendere ancora più esplicito il suo essere vivo e libero di poter cantare. E non è un caso, credo, che il canto sia stato il suo modo di comunicare con l’esterno praticamente fino alla fine della sua esistenza.

Quella visita ad Auschwitz….

Ho visitato per la prima volta Auschwitz Birkenau insieme alle compagne e ai compagni dell’Hashomer Hatzair d’Europa, era il 1993, avevo 17 anni, quasi coetaneo del nonno quando arrivò ad Auschwitz a 18 anni. Tornai sconvolto, furioso e determinato a raccontare ai miei coetanei al di fuori dei circuiti ebraici quello che aveva vissuto il nonno e quello che avevo visto io. Parlai delle mie emozioni legate alla visita dei campi con la mia amata nonna Rirì, avevamo una grande confidenza, ma non ricordo di averne parlato con il nonno. Che senso avrebbe avuto? Sarebbe stato come concentrarsi sul tramonto e non sull’alba. 
Ad Auschwitz conobbi una compagna dell’Hashomer Hatzair di Bruxelles, erano giorni terribili, e Severine mi aiutò a superarli. Ci perdemmo di contatto poco dopo il ritorno ognuno a casa sua. Fino a quando, dieci anni dopo, ci ritrovammo (e da allora siamo ancora insieme, con due bambini e un cane). Presentai Severine ai nonni in occasione di una cena. Poco prima di passare a tavola, il nonno si rivolse a noi due con una domanda che gelò Severine “Dove vi siete conosciuti?”. Severine imbarazzata scappò in cucina, facendo finta di dover aiutare la nonna Rirì. Mi ritrovai solo con il nonno e con una certa tensione gli risposi “Ci siamo conosciuti dieci anni fa, ad Auschwitz, grazie all’Hashomer Hatzair”. Il nonno mi guardò come sempre dritto negli occhi e disse sorridendo, “Vedi, anche da lì possono uscire cose belle!”.

Amare la vita e la libertà: un insegnamento prezioso

Ecco, credo che l’aneddoto appena citato sia la giusta chiusura per questo piccolo tributo assolutamente informale e personale all’insegnamento, alla memoria del nonno. Amare la vita e amare la libertà, sempre e comunque sia, senza pregiudizi. E questo significa essere attento e pronto a difendere gli oppressi, i deboli o abbandonati, significa lavorare affinché ogni forma di schiavitù simbolica o reale, cessi di esistere.