Adolf Eichmann al processo a Gerusalemme

L’uomo nella gabbia di vetro

di Luciano Assin
Sessant’anni fa, e più precisamente l’11 aprile 1961, iniziava in Israele il Processo Eichmann, una delle tappe cruciali che Israele dovette affrontare per misurarsi con un argomento ingombrante e imbarazzante: la Shoà. Non starò qui a dilinguarmi sulla dinamica del rapimento ad opera del Mossad e sul suo trasferimento clandestino in Israele. La letteratura sull’argomento è vasta e, anche se più o meno romanzata, fedele ai fatti.

L’istruttoria precedente l’apertura del processo durò 9 mesi, alla fine dei quali vennero raccolti 121 testimoni e 1600 documenti, in parte firmati di proprio pugno da Eichmann, per un totale di 15 capi d’accusa. Il collegio di difesa del gerarca nazista non negò la partecipazione di Eichmann alla “soluzione finale” ma cercò di sminuirne il suo ruolo definendolo “un’insignificante rotella di un immenso ingranaggio”. In verità venne dimostrato in maniera inconfutabile la partecipazione attiva e la sua diretta responsabilità allo sterminio non solo di 6 milioni di ebrei ma di 12 milioni di uomini. Il grigiore e la “normalità” di Eichmann furono descritti in maniera magistrale da Hannah Arendt, corrispondente del settimanale New Yorker durante il processo, nel suo saggio “la banalità del male”.

Il processo diede occasione a molti di riflettere sulla natura umana, Eichmann, tutto era fuorché anormale: era questa la sua dote più spaventosa. Sarebbe stato meno temibile un mostro inumano, perché proprio in quanto tale rendeva difficile identificarvisi. Ma quel che diceva Eichmann e il modo in cui lo diceva, non faceva altro che tracciare il quadro di una persona che avrebbe potuto essere chiunque: chiunque poteva essere Eichmann, sarebbe bastato essere senza idee, come lui. Prima ancora che poco intelligente, egli non aveva idee e non si rendeva conto di quel che stava facendo. Era semplicemente una persona completamente calata nella realtà che aveva davanti: lavorare, cercare una promozione, riordinare numeri sulle statistiche, ecc. Più che l’intelligenza gli mancava la capacità di immaginare cosa stesse facendo. “Non era stupido: era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo” fu il commento della scrittrice.

Protetto da una cabina di vetro antiproiettile Eichmann si difese sostenendo la sua mancata responsabilità per i crimini imputategli, ribadendo più volte di aver solo “eseguito gli ordini” ripetendo la frase tedesca “Befehl ist Befehl” (gli ordini sono ordini).

Tuttavia la difesa venne respinta, in quanto tale principio era già stato superato nel processo di Norimberga che vide imputati gli altri criminali nazisti. Quanto affermato allora, infatti, veniva ripreso ora dalla legislazione israeliana e “il fatto che una persona abbia agito in ottemperanza a ordini del suo governo o di un superiore, non lo scagiona dalle responsabilità del diritto internazionale”.

Nel periodo del processo Israele ancora non aveva una propria emittente televisiva e le sedute del processo vennero trasmesse via radio. Per poter dar modo al pubblico di assistere al processo in gran numero, la principale sala dei congressi di Gerusalemme venne trasformata in aula giudiziaria.

Il processo oltre a essere un monito per tutti gli altri nazisti riusciti a fuggire alla Giustizia fu anche un momento catartico per Israele. Fu il processo in cui gli israeliani si riappropriano della Shoah. Prima di allora per i sopravvissuti emigrati in Israele la Shoah era una vergogna. Il caso Eichmann, le testimonianze, i resoconti dei giornalisti di tutto il mondo fecero sì che anche gli israeliani, come nazione giovane, in costante pericolo, ripensassero alla propria storia non tanto come storia della patria, ma come sintesi di storie individuali. Attraverso Eichmann Israele scoprì la memoria, scopre che “il padre di…”, il collega, la vicina di casa o addirittura un parente prossimo erano parte della storia dello Stato ebraico tanto quanto i pionieri sionisti degli anni Venti del Novecento. Il formale processo a un uomo di mezza età divenne, quindi, in grado di riformulare l’identità collettiva di un’intera nazione.

La catarsi derivata dal processo formò finalmente un legame di empatia fra i Sabra israeliani, da sempre abituati a difendersi, e i sopravissuti che poterono lentamente affrancarsi dallo stigma di ” pecore portate al macello” come fino a quel momento erano considerati. L’ex gerarca nazista fu giudicato colpevole e condannato a morte anche dopo il ricorso e nonostante la richiesta di Grazia presentata da un numeroso gruppo di intellettuali, comprese anche alcune personalità israeliane. Le ceneri di Eichmann vennero disperse in mare fuori dalle acque territoriali del paese.

Nel 1961, quando venne istruito il processo, Israele aveva 13 anni, l’età della maturità secondo la tradizione religiosa ebraica. E fu proprio da quel momento, prendendo finalmente coscienza di quello che realmente era successo, che il giovane Stato cominciò ad affrontare una realtà scomoda e imbarazzante. Una realtà che ci accompagna e ci accompagnerà per sempre.

dal blog di Luciano Assin L’altraisraele