I relatori dell'evento su ebrei e mondo arabo

L’esodo degli ebrei dal mondo arabo: ritornare alla convivenza per arrivare alla pace

di Anna Lesnevskaya
La pace in Medio Oriente passa da una ricostruzione del rapporto tra l’ebraismo e il mondo arabo, basata sulla storia e non sul pregiudizio. Su questo hanno concordato i partecipanti al dibattito “L’esodo degli ebrei dal mondo arabo: tra panarabismo, sionismo e antisemitismo”, organizzato il 16 febbraio dal Centro Studi di Politica Internazionale (Cespi) e moderato dal presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati, Piero Fassino.

La storia da ricostruire è quella del vissuto millenario delle minoranze ebraiche in quelle terre, spazzato via in pochi anni dalla furia del nazionalismo arabo, con i silenzi e le assenze delle potenze occidentali. Un tassello di questo dramma archiviato viene ricomposto grazie al volume Libia ebraica (Editore Salomone Belforte & C., 2020) a cura di Jacques Roumani, David Meghnagi e Judith Roumani, dal quale ha preso lo spunto il dibattito promosso dal Cespi.

Per dirla insieme ad uno dei relatori, ex vice ministro per gli Affari Esteri, Mario Giro, nel libro scopriamo il “lessico famigliare” degli ebrei libici, che però è punteggiato dal filo continuo della violenza. Da una parte, ci sono i profumi e i sapori delle cucine della Hara, quartiere ebraico di Tripoli, dall’altra i pogrom e la sensazione degli ebrei di essere ostaggi di un mondo arabo che brama la loro espulsione. Era un tema proibito, quello dei pogrom, nella famiglia di David Meghnagi, coautore del libro e docente dell’Università Roma Tre, nato a Tripoli nel 1949.

Dopo le persecuzioni razziali sotto l’Italia fascista, le deportazioni nel deserto e, per alcune categorie, in Italia e nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, si scatenarono le violenze arabe contro gli ebrei prima nel 1945 e poi nel 1948, con colpevoli ritardi nel reagire da parte delle autorità britanniche. Più del 90 per cento della comunità ebraica, che contava 38mila persone, lasciò la Libia tra il 1948 e il 1951. Dopo il terzo massacro del 1967 partirono i pochi rimasti, chiudendo il sipario su più di 2000 anni di esistenza ebraica in quella terra, che precedette di un millennio la nascita dell’islam in Arabia.

Questa storia però ha subito una distorsione politica dovuta al conflitto arabo-israeliano. La vicenda degli ebrei nel mondo arabo, che “furono una minoranza pacifica oppressa”, “si scontra con la narrazione che ha privilegiato il dramma vissuto dai profughi palestinesi nel corso della guerra arabo-israeliana, una guerra di aggressione della coalizione degli Stati arabi prima che nascesse o appena era nato lo Stato di Israele”, ritiene Meghnagi. Sulla politicizzazione che ha distorto la storia è concorde Piero Fassino. “La presenza della comunità ebraica nel mondo arabo affonda le radici nei secoli, – ha detto il politico. – La rappresentazione per cui le comunità ebraiche sarebbero un soggetto estraneo a queste società e quindi bisogna espellerle (…) è una rappresentazione deformata e condizionata dalla vicenda politica israelo-palestinese”.

Con l’esodo degli ebrei dal mondo arabo si è rotto il “mosaico della convivenza”, l’unico capace di garantire la pace e la prosperità, ha sintetizzato il direttore de La Repubblica, Maurizio Molinari, intervenendo al dibattito, avvenuto a pochi mesi dalla conclusione degli “Accordi di Abramo” tra lo Stato di Israele, gli Emirati Arabi e il Bahrein, sotto l’egida degli Usa. Accordi, questi, che hanno segnato l’apertura di una parte del mondo arabo alle “originarie radici culturali”. L’aspetto rivoluzionario di questi accordi, ritiene Molinari, è dire che “la pace a livello di nazioni nasce dalla ricostruzione della convivenza”. “La convivenza con gli ebrei come Stato è la ripetizione a livello statale della convivenza che c’era tra le comunità musulmane maggioritarie e la minoranza ebraica”, ha detto il giornalista.

Per Molinari, la formula per uscire dalla crisi mediorientale offerta dagli “Accordi di Abramo” è strategica in questo momento, visto che l’appena insediatasi amministrazione Biden sta dicendo al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas, di cogliere l’opportunità del tentativo degli Usa di coinvolgere l’Arabia Saudita nel negoziato. “Politicamente ai palestinesi non conviene mettersi sulla sponda del rifiuto, – ritiene Piero Fassino. – Bisogna stare dentro la situazione di movimento e cogliere tutte le opportunità”. In questo clima di ottimismo c’è invece uno sviluppo che ci riporta indietro, hanno convenuto i relatori. Si tratta della recente decisione della Corte Penale Internazionale dell’Aia (Cpi) di estendere la propria giurisdizione ai Territori palestinesi, definita “un errore politico” da Fassino.

Dove la politica ha fallito, può riuscire il dialogo tra le religioni. La tragedia del Medio Oriente nasce dai problemi lasciati irrisolti dopo la Prima guerra mondiale, che ci ritroviamo un secolo dopo, ha sintetizzato David Meghnagi, per il quale, “implementando il dialogo religioso possiamo sanare le ferite della politica”. In questo senso, la visita di Papa Francesco ad Abu Dhabi nel 2019 e la firma dello storico “Documento sulla fratellanza umana” insieme al Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib, ha creato, secondo Maurizio Molinari, una premessa necessaria per gli Accordi di Abramo. Come ritiene Mario Giro, “la radice del nazionalismo arabo è areligiosa e quindi è facile la manipolazione razzista”. Per l’ex vice ministro degli Esteri e membro della Comunità di Sant’Egidio, spostarsi dal nazionalismo e riscoprire “le radici religiose della convivenza” può aiutare a uscire dalla crisi.

La giornalista e saggista Mirella Serri, intervenendo al dibattito, ha sottolineato un altro tema importante, scoperchiato dal libro Libia ebraica, ossia il disimpegno rispetto a quelle vicende delle potenze occidentali, le quali più che proteggere le minoranze del mondo arabo, le hanno manipolate per i propri interessi. Secondo la Serri, uno degli esempi di ciò, è il mancato intervento dell’Occidente per estradare e processare dopo la fine della Seconda guerra mondiale il Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, collaboratore di Hitler, che con le sue prediche antiebraiche trasmesse su Radio Bari e Radio Berlino, fomentava l’antisemitismo del mondo arabo.

Secondo l’espressione di Mario Giro, la fine della coabitazione tra gli ebrei e gli arabi “è stata come una lunga collana che si rompe”. Alla rottura dell’ultimo anello di questa collana stiamo assistendo ora in Europa, in Francia, la cui comunità ebraica si sta diradando sotto la pressione del nuovo antisemitismo di matrice araba e antisionista.