Angela Merkel ad Auschhwitz

Il viaggio di Angela Merkel ad Auschwitz: un’analisi

di Simone Zoppellaro (fonte Gariwo.net)
Una visita storica, quella di Angela Merkel ad Auschwitz il 6 dicembre. Questo per molteplici ragioni. Terzo cancelliere a visitare il campo di sterminio nazista, Merkel ha seguito le orme di Helmut Schmidt nel 1977 e di Helmut Kohl, due volte, di cui la prima nel 1989. Date, a ben guardare, cruciali nella storia della Germania, impresse nella memoria collettiva: se al 1977 corrisponde il deutscher Herbst, l’“autunno tedesco”, segnato dal sangue e dal terrorismo della Rote Armee Fraktion, il 1989 rimanda, naturalmente, alla caduta del Muro. Una ricorrenza non casuale, verrebbe da dire. La Germania del dopoguerra, in ogni momento essenziale della sua storia, in ogni frangente di ridefinizione morale e identitaria, sembra tornare a interrogarsi, in cerca di numi, sulla pagina più oscura del suo passato, sul luogo dei crimini più efferati, sulle radici stesse della colpa. In una parola: su Auschwitz. In questo quadro – a meno di due mesi dall’attacco alla sinagoga di Halle, in un momento in cui lo spettro dell’antisemitismo tedesco torna a farsi quantomai presente e concreto – la visita della Merkel non fa eccezione.

Una visita che guarda, dunque, tanto alla memoria tedesca e europea che al futuro, e che ha tutto il sapore di un testamento morale e politico. Non senza un fondo di ansia e paura per un testimone ingombrante per il quale, oltre a lasciare tanti interrogativi senza risposta, manca tuttora un erede degno di tal nome. Quello che fra pochi giorni sarà il secondo cancellierato più lungo del dopoguerra tedesco, secondo solo ai 16 anni del già menzionato Helmut Kohl, si concluderà infatti nel 2021, in un mondo che possiamo già oggi dire assai diverso da quello del 2005 – data di inizio del suo primo mandato. La crisi economica e la rivoluzione tecnologica da un lato, l’ascesa di Trump, la Brexit e il nuovo insorgere di nazionalismi, xenofobia e antisemitismo, dall’altro, hanno scosso le fondamenta stesse dell’Europa, mettendo in crisi un progetto, quello di una casa comune per tutte le nazioni del continente, che proprio da una profonda riflessione sugli errori e orrori del secondo conflitto mondiale aveva trovato forza e ispirazione. La Germania, prima potenza politica e economica europea, oggi al centro di questa tempesta, torna allora a interrogarsi sulla sua identità, guardando con ansia al suo e al nostro futuro.

Leggo anche in questa luce le parole di Merkel ad Auschwitz, importanti e all’altezza del suo compito: «Ricordare i crimini, nominare i responsabili e conservare un degno ricordo per le vittime – questa è una responsabilità che non ha fine. Non è negoziabile e appartiene inseparabilmente al nostro Paese. La consapevolezza di questa responsabilità è parte integrante della nostra identità nazionale, della nostra immagine di noi stessi quale società aperta e liberale, come democrazia e stato di diritto.» Parole che mi riportano alla mente un passo di Günther Anders, in cui ricordava come, se è legittimo per i tedeschi provare orgoglio per il loro passato culturale e artistico, dai classici della musica alla letteratura, sia loro dovere provare orrore per la Shoah, parte non meno essenziale della loro identità. Nulla di più lontano da alcune prese di posizioni da parte di leader dell’AfD, partito della nuova destra tedesca. Così Alexander Gauland, secondo il quale Hitler e il nazismo sarebbero stati solo «una “cacca di uccello” in più di mille anni di gloriosa storia tedesca».

Insieme al suo lascito, Merkel si interroga anche sul futuro della memoria, in momento storico in cui, come ha ricordato nel suo discorso, sempre meno testimoni possono raccontare la Shoah. Un passaggio storico cruciale, ancora una volta, di cui Merkel dimostra di riconoscere tutta l’urgenza. Cosa accadrà quando la voce degli ultimi sopravvissuti sarà spenta, quando la loro autorità morale non sarà più da freno a una politica che, anziché interrogarsi sulla storia, si affida ad algoritmi, sondaggi e strategie di marketing, sfruttando l’odio, se necessario, come una fonte legittima di consenso?

Un testamento morale e politico, dicevamo, quello di Angela Merkel, che rischia concretamente di non trovare eredi, sia sul versante della memoria che su quello politico, tanto a livello nazionale che europeo. Ne sono ben consapevoli molti tedeschi, che vedono oggi più che mai in questi due punti, solo apparentemente lontani – memoria e futuro della politica – un nesso profondo e inscindibile. Ne è consapevole a maggior ragione Merkel, che ha vissuto l’insorgere dell’odio in quei territori, l’est della Germania, che sono stati un tempo la sua patria.

Dalla mia prospettiva di italiano che vive ormai da anni in Germania, la politica tedesca – e l’operato di Merkel, in primis – ha un sapore antico, ancora tutto novecentesco: lontana dai social, avulsa dagli umori del momento, stabile e pacata, capace di una visione che trascenda l’illusoria tirannia dell’attimo, di un presente senza radici e prospettive. Sta a noi decidere se chiudere o meno un periodo di pace senza precedenti, per l’Europa occidentale almeno, che traeva nutrimento dalla coscienza e dalla memoria dei crimini nazi-fascisti. Non vorrei, ma temo che le parole di Merkel ad Auschwitz saranno un giorno ricordate come il canto del cigno del Novecento, prima che si apra su di noi un sipario di tenebre.

(Fonte foto: Afp)