Il bambino di Gaza dato per morto dai media, accusando le IDF, è vivo: smascherata fake news

Personaggi e Storie

di Nina Deutsch
Il presunto “Amir”, citato da un ex collaboratore della Gaza Humanitarian Foundation (GHF) come vittima del fuoco israeliano, si chiama in realtà Abdul Rahim Muhammad Hamden ed è vivo con la madre fuori dalla Striscia. Una vicenda che rivela quanto la disinformazione possa manipolare e orientare in modo errato l’opinione pubblica mondiale.

Un bambino vivo trasformato in simbolo di morte. È la parabola paradossale del piccolo Abdul Rahim Muhammad Hamden, detto “Abood”, che un ex collaboratore della Gaza Humanitarian Foundation – organizzazione americana senza scopo di lucro fondata nel febbraio 2025 per distribuire aiuti umanitari durante l’attuale crisi umanitaria di Gaza – aveva descritto come vittima delle Forze di Difesa israeliane.

Secondo il racconto dell’uomo riportato dal Times of Israel, il bambino – ribattezzato “Amir” per renderlo anonimo ma identificabile – sarebbe stato ucciso dopo aver ricevuto del cibo in un punto di distribuzione della GHF. Una scena straziante che aveva fatto il giro dei media internazionali, indignando l’opinione pubblica e alimentando l’ennesima ondata di accuse.

Ma la verità, a distanza di settimane, si è rivelata completamente diversa: il piccolo non solo è vivo, ma è stato trasferito insieme alla madre fuori da Gaza, in un luogo sicuro. È stata la stessa organizzazione umanitaria a confermarlo, mostrando immagini e testimonianze che hanno smentito radicalmente la versione del suo ex dipendente.

La macchina della menzogna

La presunta uccisione aveva attirato l’attenzione internazionale a luglio, quando Anthony Aguilar, ex soldato delle forze speciali statunitensi e collaboratore a contratto della GHF, aveva raccontato di aver assistito alla morte di un bambino appunto di nome “Amir” sotto il fuoco dell’IDF. Parole pesanti, accompagnate da interviste in cui Aguilar parlava di «crimini di guerra» e «uso indiscriminato della forza contro civili affamati e disarmati».

Un video della BBC aveva ripreso le sue dichiarazioni, rafforzando una narrazione destinata ad accendere e disorientare gli animi mescolando notizie vere e notizie false. Ma a smentire la storia del bambino è arrivata la stessa GHF, che ha rintracciato Abdul grazie a riscontri biometrici e testimonianze dirette. «Il ragazzo è vivo e salvo – ha dichiarato il portavoce Chapin Fay –. È stato falsamente identificato come ‘Amir’ dal signor Aguilar. La sua famiglia lo chiama Abood e oggi si trova con la madre in una zona sicura».

 

Fake news come arma

L’organizzazione ha sottolineato che l’eco mediatica delle dichiarazioni di Aguilar non solo ha diffuso menzogne, ma ha anche messo in pericolo la famiglia del bambino. «Quella pubblicità ha esposto Abdul al rischio di diventare un bersaglio di Hamas – ha spiegato Fay –. Le bugie hanno fornito propaganda utile, sfruttata per alimentare indignazione e violenza».

La vicenda dimostra quanto fragile sia la catena dell’informazione in contesti di conflitto. È bastata la parola di un ex dipendente rancoroso per costruire una storia che, rilanciata senza adeguata verifica, ha orientato in modo errato l’opinione pubblica globale. «Ogni fake news – osservano esperti di comunicazione – non si limita a disinformare: diventa un’arma capace di disorientare e di scatenare odio».

L’altra faccia della storia

La GHF ha anche diffuso filmati in cui il bambino appare sorridente accanto alla madre e ha pubblicato una sua testimonianza: «Voglio viaggiare per il bene di mio figlio. Nessuno mi ha fatto pressioni», ha detto la donna in arabo. Una dichiarazione che smentisce chi sosteneva che il trasferimento fosse forzato.

 

Intanto emergono dettagli sul passato di Aguilar. L’uomo non si era dimesso, come raccontato, ma era stato licenziato per cattiva condotta dal partner di sicurezza della GHF. In alcuni messaggi resi pubblici dall’organizzazione, l’ex contractor avrebbe minacciato ritorsioni: «Posso essere il vostro miglior amico o il vostro peggior incubo», scriveva a metà giugno.

La lezione del “caso Abood”

La storia del presunto “Amir” non è solo la smentita di una notizia falsa: è la dimostrazione concreta di quanto la disinformazione possa diventare arma nelle mani di chi vuole piegare i fatti a fini propagandistici. E ancora una volta emerge il rischio: che il racconto emotivo, immediato e privo di verifiche riesca a fare più rumore della verità. Il piccolo Abdul è vivo, protetto e pronto a una nuova vita. Ma la sua vicenda resta come monito: basta una bugia, amplificata dai media, per generare odio, diffidenza e indignazione mondiale. E riportare equilibrio, dopo che la menzogna ha già fatto il giro del pianeta, diventa un’impresa sempre più difficile.