Eve Cohen, in arte Arnold: la regina del clic

Personaggi e Storie

di Fiona Diwan

Era quasi ottantenne quando l’ho incontrata, a Londra, durante un’intervista. La conoscevo di nome, e per me non era solo la grande fotografa delle star, l’amica di Marylin Monroe, di Liz Taylor e di Malcom X. Eve Arnold, per me, era l’eroina assoluta del fotogiornalismo, tra le poche donne reporter, una viaggiatrice inarrivabile per fibra emotiva, tempra fisica e acutezza di sguardo, molto simile, in questo, ad un’altra eccezionale reporter, Alexandra David Neel, ebrea anch’essa, morta centenaria – come Eve -, e sofisticatissima giramondo. Eve Cohen, conosciuta come Eve Arnold, fu tra le poche americane a essere ammessa, negli anni Settanta, nella Cina comunista; a entrare in Arabia Saudita e a visitare, per Life e per il Sunday Times, la Mongolia, l’India, l’Afganisthan; a entrare a Harlem in piene rivolte razziali, quando nessun bianco avrebbe trovato igienico metterci piede. Era riuscita e penetrare nella Russia degli anni Cinquanta, a Cuba e perfino in Vaticano. Autrice, ancora, tra le immagini e i ritratti più memorabili del XX secolo, da Malcom X a Indira Gandhi, da Marlene Dietrich alla Monroe. Oggi, una mostra a Torino, a Palazzo Madama, la celebra con 83 dei suoi scatti più famosi, ma anche con clic inediti o più affettivi (fino al 27 aprile).

Nata il 21 aprile 1912, a Philadelphia, da immigrati russi, inizia la carriera fotografica nel 1946 a New York. Segue i corsi di Alexey Brodovitch, art director di Harper’s Bazaar, che per primo ne intuisce il talento e le commissiona dei servizi di moda. Henri Cartier-Bresson la nota e la introduce nel collettivo dell’agenzia Magnum, prima come freelance, nel 1951 e dal 1957 come membro effettivo. A metà degli anni Sessanta, Eve Arnold si stabilisce a Londra, dove morirà a 99 anni. Proveniva da una famiglia di ebrei fuggiti dai pogrom e dalle persecuzioni del primo Novecento, in Russia. Il padre, un rabbino, non parlava l’inglese ma sbarcherà a New York; per mantenere la famiglia di otto bambini aveva fatto di tutto, incluso il venditore ambulante, ed era riuscito a inculcare nei figli l’amore per la lettura, a dare loro una grande curiosità verso il mondo. Eve non poté frequentare l’università e trovò lavoro in vari uffici. «L’America non ci aveva portato ricchezza, ma la libertà di esser noi stessi e la possibilità di lavorare», diceva spesso. Divenne fotografa da adulta, per caso, a trentadue anni. «Una professionista instancabile, che amava girare da sola e fotografare gente semplice, che fosse sul set di un film o a tu per tu con la folla, con uomini e donne che facevano le loro cose, nella loro intimità, a casa e al lavoro. Eve riusciva a farsi accettare dalla gente che fotografava e a conquistare la loro fiducia, perché era diretta, onesta e genuinamente curiosa», scrive di lei, nel saggio del bel catalogo Silvana Editrice, la scrittrice Simonetta Agnello Hornby. E spiega, ancora: «L’Addestratrice di cavalli in Mongolia è un piccolo capolavoro fotografico: un cavallo bianco disteso su un prato, la sua addestratrice vestita di rosa confetto e stivali, sdraiata sull’erba, la mano destra poggiata sul suo fianco. Il verde profondo del prato punteggiato da margheritine bianche avvolge cavallo e ragazza. Una composizione apparentemente idillica, densa di pathos. E di suprema bellezza. Eve amava molto quella fotografia, le ricordava la gente fiera e combattiva che l’aveva accolta a braccia aperte. “Erano poveri”, diceva, “e mi offrivano tutto quello che avevano”».

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