Dai caschi da guerra ai simboli di speranza: l’arte che resiste all’odio. E i giovani artisti protagonisti di un cambiamento

Personaggi e Storie

di Marina Gersony
Molti degli artisti coinvolti non toccano un pennello dal 7 ottobre. Ma adesso, per loro, dipingere i caschi diventa un atto di guarigione. Un modo per elaborare il trauma, per trasformare il dolore in espressione, per trovare – tra i colpi del cuore – una strada verso la luce.

In un angolo del mondo straziato da conflitti e dolore, c’è chi decide di prendere uno degli oggetti più simbolici della guerra – il casco militare – e trasformarlo in qualcosa di completamente diverso. Qualcosa che parla di vita, non di morte. Di bellezza, non di distruzione. Di creatività, non di paura.

È il caso di Seagal Hagege, una giovane donna cresciuta nel New Jersey, che un giorno decide di inseguire il suo sogno più profondo: fare l’aliyah e trasferirsi in Israele per iniziare una nuova vita. È l’autunno del 2020, in piena pandemia da Covid, quando scopre di essere incinta del suo quarto figlio. È proprio in quel momento così delicato e pieno di incertezze che prende forma la sua scelta: partire con la famiglia e ricominciare da capo nella terra che sente come casa sua.

Ma la vita, si sa, è imprevedibile. A volte regala speranze, altre volte colpisce duramente. Tre anni dopo quel trasferimento, il 7 ottobre 2023, la famigliola si trova nella sinagoga del quartiere, ospitata all’interno di una scuola superiore di Netanya, per celebrare la festa di Simchat Torah. Proprio in quelle ore, però, nel sud di Israele si scatena l’inferno: Hamas lancia un attacco senza precedenti. Mentre il caos esplode altrove, nella sinagoga di Netanya si prega in un’atmosfera di festa, del tutto ignari del pericolo imminente. Nessuno dà l’allarme, anche perché le autorità non sono nemmeno al corrente che lì, in quella scuola, si stia svolgendo una funzione religiosa.

L’inizio in Israele non è affatto facile, come racconta il sito Jewish News. Trovare una scuola per i bambini si rivela più complicato del previsto, e Seagal pensa persino di tornare negli Stati Uniti. Ma quel 7 ottobre cambia tutto. Il giorno dopo, durante una raccolta di sangue, la donna riceve un messaggio urgente: «Puoi procurarci 50 paia di stivali per i soldati dell’IDF?» In poche ore raccoglie i fondi e li consegna. Ma poco dopo scopre che ne sono stati distribuiti 90 paia in più del previsto. Il fornitore, forse per generosità, ne fornisce molti di più. A quel punto, si chiede: «Come faccio a toglierli ai soldati? Non posso certo chiedere loro di restituirli».

Bastano pochi minuti di diretta su Facebook per raccogliere il resto. Da quel momento, Seagal – oggi coinvolta nel progetto Ari Fuld, un’organizzazione che assiste i soldati israeliani e le loro famiglie – comincia a ricevere ogni giorno richieste dai comandanti in prima linea: stivali, occhiali, sacchi a pelo, attrezzature. «La gente dona ciò che può. Io raccolgo tutto, preparo i pacchi e consegno», racconta.

Poi, arrivano gli elmetti. Devono essere sostituiti con modelli più nuovi e leggeri. E allora Seagal ha un’idea: chiede ad alcuni amici artisti di trasformare i vecchi caschi militari in opere d’arte. Nasce così una collezione potente, piena di emozione e memoria. Ogni casco racconta una storia.

C’è quello di Sylvia Harar, ispirato alla guerra dello Yom Kippur: un elmo in cartapesta bianca e blu, con tocchi di rosso che parlano di sangue ma anche di speranza. C’è quello creato da Ayala, interamente decorato con petali di rosa ottenuti da vere lettere d’amore, scritte da familiari a soldati negli anni Sessanta.

Il casco preferito di Seagal, però, è quello del misterioso «Dr. H», un artista noto per il suo stile da graffiti urbano. Quando Seagal vede il casco dipinto con limoni, pensa subito al proverbio: «Se la vita ti dà limoni… fai la limonata.» Ma il significato è un altro. «È l’albero di limoni nel giardino di mia madre», spiega l’artista. «Quello che mi teneva con i piedi per terra ogni volta che dovevo andare a combattere. Casa, famiglia, sicurezza».

Molti degli artisti coinvolti non toccano un pennello dal 7 ottobre. Ma adesso, per loro, dipingere i caschi diventa un atto di guarigione. Un modo per elaborare il trauma, per trasformare il dolore in espressione, per trovare – tra i colpi del cuore – una strada verso la luce.

In occasione di Yom Hazikaron, la giornata del ricordo dei caduti israeliani, i caschi vengono esposti nel centro comunitario di Netanya, come segno di riconoscenza per i soldati dell’IDF e in memoria delle vittime. Sono ancora lì, in attesa di essere portati altrove. Il trasporto è complicato, ma il Dr. H apre da poco una galleria, e Seagal spera che sia la prima tappa di un percorso più grande.

«Sogno di portare questa collezione all’estero», dice. «Per mostrare al mondo cosa può nascere dal dolore. Se qualcuno può aiutarmi, sono pronta».

E non è l’unico esempio.

In Israele, altri progetti artistici confermano questa sorprendente e commovente tendenza. Prendiamo Helmet for Heroes, un’iniziativa lanciata nella primavera del 2024 dalla galleria londinese Omer Tiroche. Trenta elmetti dell’IDF sono stati trasformati in opere d’arte da artisti israeliani di fama internazionale e poi messi all’asta per sostenere soldati affetti da disturbo post-traumatico da stress. L’iniziativa ha raccolto più di 70.000 sterline da destinare a terapie innovative per i reduci di guerra. Come raccontato in questo stesso sito, una delle opere più simboliche è stata realizzata dall’artista Orit Fuchs, che ha trasformato un elmetto in un arcobaleno con la scritta «Superhero». Un modo per parlare del coraggio silenzioso di chi lotta ogni giorno con le ferite interiori.

Ma non ci si ferma agli elmetti. L’artista Tomer Peretz ha dato nuova vita alle giacche militari dismesse creando la collezione War Is Over, capi unici arricchiti da elementi multimediali: ogni giacca porta con sé un chip che racconta la storia vera di chi l’ha indossata. Un progetto di moda consapevole e potente, che intende trasformare l’uniforme – simbolo di conflitto – in testimonianza di cambiamento, di identità, di pace.

E poi c’è Jonathan Kis-Lev, nato da genitori immigrati in Israele dall’ex Unione Sovietica, in arte (anche) John Kiss, giovane street artist che, armato di bombolette colorate e di visione, trasforma i muri di Betlemme e dei territori segnati dal conflitto in tele di speranza. La sua Naïve Series, dipinta con la mano sinistra per evocare la spontaneità infantile, rappresenta sorrisi, animali, gesti d’affetto. Una forma d’arte che vuole ricordare a tutti che la semplicità può ancora commuovere, e che un bambino che disegna è un bambino che sogna. Kiss, da quanto racconta la sua biografia, collabora anche con artisti palestinesi nella Cisgiordania, a dimostrazione che la creatività può attraversare muri più facilmente di qualsiasi trattativa politica. (Per le sue attuali Naïve Series clicca QUI).

Nel mezzo del dolore, della rabbia, della paura, queste iniziative raccontano un’altra storia. Una storia che parla di umanità, di resilienza, di giovani che non vogliono essere soltanto vittime o spettatori della guerra, ma protagonisti di un cambiamento, anche piccolo, anche simbolico.

Anche a Gaza, il giovane artista Assaf al‑Kherty recupera scarti di metalli, attrezzi abbandonati e residui bellici nei campi per trasformarli in sculture potentemente evocative. Ogni pezzo – che può essere una valigia, una lama di trapano o un sacchetto scolastico – diventa un racconto della vita e delle speranze dei giovani della Striscia. I suoi lavori portano alla luce il desiderio di rinascita: il metallo di rifiuto diviene struttura portante di nuove storie, piccoli monumenti alla speranza nel mezzo di un territorio segnato dal blocco, dalla povertà e dalla distruzione.

Così come in Ucraina, nel pieno dell’invasione russa, un gruppo di artisti ha iniziato a decorare le rovine di Mariupol con murales colorati, trasformando pareti devastate in messaggi visivi di resistenza e speranza. Come riportato da The Guardian, l’arte diventa un modo per riappropriarsi del territorio, per ridare voce a chi è stato messo a tacere.

Come i fiori che spuntano tra le crepe dell’asfalto bombardato, così l’immaginazione e la creatività sbocciano anche dove sembra impossibile. Trasformano il grigio in colore, il trauma in energia, il caos in un disegno.

In fondo, è come diceva Pablo Picasso: «L’arte scuote dall’anima la polvere della vita quotidiana». E mai come oggi, il mondo ha bisogno di scrollarsi di dosso la polvere della violenza. Di ricordare che ogni atto creativo è un atto di pace. Che ogni colore è un seme di futuro. Che ogni casco trasformato, ogni giacca ricamata, ogni muro dipinto è una piccola vittoria contro il Male.