di Marina Gersony
Testimone lucida e coraggiosa della Shoah, è morta a 100 anni. La sua voce è più necessaria che mai, in un tempo in cui l’antisemitismo rialza la testa. (Foto: Karen Goldfarb)
Nell’Upper West Side di Manhattan, in un appartamento pieno di luce e memorie, si è spenta a pochi giorni dal suo 101° compleanno Helena Weinrauch: sopravvissuta all’Olocausto, ballerina tardiva, testimone di un secolo che ha provato a spezzarla – ma non ci è mai riuscito.
Chi la conosceva la chiamava «l’angelo danzante». Non per caso. Helena aveva scoperto la gioia del ballo da sala alla soglia dei novant’anni. Le sue movenze erano leggere, il sorriso radioso. In pista sembrava sospesa: la danza era la sua rivincita contro la morte, la sua forma di preghiera. «Quando ballo – diceva – mi dimentico cosa mi è successo e mi sento felice. Anche solo per un’ora».
Eppure, il suo corpo aveva conosciuto la fame, le marce forzate, i numeri tatuati sulla pelle. Aveva attraversato Plaszow, Auschwitz, la marcia della morte verso Bergen-Belsen. Era sopravvissuta a tutto. Anche alle tragedie successive che la vita le avrebbe riservato. Ma Helena era rinata, più volte, contro ogni previsione, contro ogni probabilità. Il mantra della sua vita è sempre stato: Mai, mai arrendersi, qualunque cosa accada. La vita va vissuta sempre, fino in fondo».
La sua storia tragica e insieme meravigliosa è apparsa su Jewish News, quotidiano ebraico del Regno Unito. Storie come la sua non sono solo memoria: sono fari accesi, oggi più che mai, in un mondo che rischia di dimenticare. In tempi in cui il conflitto mediorientale riaccende l’odio e l’antisemitismo in ogni angolo del pianeta, ricordare è un dovere. Helena Weinrauch è la voce gentile che ci sussurra: non voltatevi dall’altra parte.
Helena nacque nel 1924 a Düsseldorf, da una famiglia ebraica colta e benestante: il padre, Maximilian, ingegnere e proprietario di pozzi petroliferi; la madre, Gisela, una pianista da concerto. La sorella maggiore, Erna, aveva sei anni più di lei. La famiglia si trasferì a Drohobycz, in Polonia, per seguire il lavoro del padre, e lì Helena crebbe tra partiture e racconti europei. Quando i nazisti salirono al potere nel 1933, lei aveva nove anni.
Nel 1939, dopo l’invasione tedesca e l’occupazione sovietica, i pozzi petroliferi della famiglia furono confiscati. I genitori e la sorella furono costretti a nascondersi. Lei, per la sua giovane età, poté ancora frequentare la scuola, trovando lavoro part-time in un ufficio. Fu lì che un capo compassionevole le procurò una falsa identità. Un gesto che le salvò la vita, almeno per un po’. Ma il destino si accanì: venne riconosciuta da un ex compagno di scuola, denunciata alla Gestapo e deportata. Una storia di sciagurata delazione come tante altre in un’epoca di nefasta memoria.
Plaszow. Auschwitz. Bergen-Belsen. La lunga marcia della morte. Ogni nome è una ferita incisa nella storia del Novecento. Helena li attraversò tutti. Quando l’esercito britannico la liberò nel 1945, pesava poco più di trenta chili.
Si riprese in Svezia, dove in ospedale conobbe Ann Rothman, una sopravvissuta come lei, che aveva tessuto abiti per le mogli dei gerarchi nazisti nel ghetto di Łódź. Divennero amiche. Ann le regalò un maglione – un capo unico, blu con maniche in angora e scollo a V smerlato (indossato nella foto in alto) – che Helena avrebbe indossato ogni anno per oltre 75 Pesach. Quel maglione, nel tempo, diventò una reliquia della memoria, un talismano silenzioso che conteneva la carezza di chi ce l’aveva fatta.
Nel 1947, Helena emigrò a New York. Imparò l’inglese alla radio, tenendo un dizionario in mano. Lavorò come tata, receptionist, assistente odontoiatrica. Per trent’anni fu redattrice scientifica per un cardiologo e nefrologo di Manhattan. Si costruì una vita. Sposò Joseph Weinrauch, un uomo gentile del settore delle pellicce. Ebbero una figlia, Arlene, che lei definiva «brillante e dotata».
Ma anche quella felicità fu segnata dal dolore: Arlene morì negli anni ’90 per un cancro al seno. Un colpo al cuore. «Di tutte le cose orribili che mi sono successe – Auschwitz, la morte della mia famiglia, un anno in ospedale – niente è paragonabile alla perdita di un figlio», disse in un’intervista alla rivista Lilith nel 2016.
Poi, nel 2006, perse anche Joe, suo marito da 55 anni. E lì, dove molti si sarebbero chiusi nel silenzio, Helena sorprese tutti: iniziò a danzare. Alla Manhattan Ballroom Society conobbe Steve Dane, che la soprannominò «l’angelo della danza», e Slavi Baylov, il partner che l’accompagnò in ogni passo – e che era con lei, al suo fianco, quando è morta lo scorso 25 maggio.
Nel 2015 un documentario raccontò la sua storia: Fascination: Helena’s Story. Poi venne il teatro: nel 2023 debuttò a New York il monologo A Will to Live, tratto dalle sue memorie inedite. «La mia storia non è finzione – dichiarò – purtroppo è la mia vera storia».
Fu solo tardi nella vita che Helena iniziò a parlare pubblicamente della Shoah. Lo fece con dolcezza e misura, attraverso il fondo educativo istituito dai suoi familiari, portando la sua voce nelle scuole medie di Corning, New York. I ragazzi le scrivevano bigliettini affettuosi: «Ti adotteremo», le dicevano. E lei li conservava come fossero gemme. Quei fogli erano il suo secondo album di famiglia.
Era una figura nota nell’Upper West Side. Da Barney Greengrass a Zabar’s, era salutata con rispetto e affetto, come una celebrità. E lei, che amava il trucco e gli abiti eleganti, sorrideva con gratitudine.
Oggi, Judy Paskind – sua nipote – racconta: «Fino a poco prima di ammalarsi, non l’ho mai vista senza rossetto. Era impeccabile, sempre. E sempre piena di dignità».
E racconta anche questo: «Ogni settimana facevamo una videochiamata. E stamattina, senza pensarci, mi sono detta: “Devo chiamare Helen”».
Ma Helen non risponderà più. Ci resta la sua voce, la sua danza, e la memoria di un coraggio gentile. In un’epoca in cui il buio torna a insinuarsi sotto nuove forme, la sua vita ci chiede di non dimenticare. Di restare umani. E, se possibile, di ballare.
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