Una riflessione sugli ultimi eventi mediorientali

Mondo

di Ruth Migliara

Mercoledì 8 marzo la Sala Friedenthal del Bené Berith di via Eupili 8 a Milano ha ospitato, nell’ambito del “Progetto Kesher” una conferenza di Emanuele Ottolenghi sulla situazione mediorientale alla luce degli ultimi eventi nord africani.

La riflessione si è concentrata sugli effetti che i sommovimenti sociali, che hanno di recente colpito alcuni stati del Nord Africa, potranno avere sugli equilibri politici mondiali e sul processo di pace arabo-israeliano.

Le rivolte dei paesi arabi nascono da una situazione fluida, diversa da paese a paese, su cui è difficile trarre conclusioni.

In generale la miccia sembra essere stato un diffuso malcontento socio economico, che dalla Tunisia, ha creato un effetto domino di rivolte, prima in Egitto e poi nel resto del mondo arabo.

Alla base è stato lo scontento politico nei confronti dei regimi e il disagio sociale nato dalla crisi economica e dal conseguente aumento dei prezzi dei beni di prima necessità.

Diversi saranno secondo Ottolenghi gli esiti nei vari paesi.

Le monarchie del golfo hanno più possibilità di sopravvivere di fronte a questa situazioni  rispetto alle dittature nordafricane grazie a una base di consenso più larga e a un appoggio più netto del potere militare.

Gli eserciti di questi paesi avrebbero minori scrupoli nel reagire contro le folle rispetto a forze militari come quella egiziana,che, presentando una forte componente popolare, hanno avallato il cambio di regime causato dalle rivolte di piazza.

Al centro degli sconvolgimenti è la volontà di rivedere i rapporti tra governanti e governati.

Si tratta di una situazione di grande fluidità in cui i regimi rivedono i propri rapporti con le masse.

Ma i cambiamenti rappresentano anche un’ occasione per l’islamismo radicale.

Non è garantito che gli eventi porteranno alla democrazia.

Per quanto l’Europa dia per scontato un esito positivo delle rivoluzioni , le forze islamiste vi vedono un’occasione per accedere al controllo politico dei paesi in rivolta.

Molti dei leaders sciiti sono tornati nei paesi nord africani dopo lunghi esili o hanno riconquistato la libertà dopo anni di carcere.

Inoltre a Teheran si è recentemente svolto un incontro dei rappresentanti delle forze islamiste che dovrebbe preoccupare l’opinione internazionale.

Non schierarsi potrebbe permettere l’inserimento di forze radicale negli scenari politici dei paesi nord africani.

E’ miope, secondo Ottolenghi, il fatto che l’Europa non agisca in sostegno di quelle istanze politiche più vicine al pensiero democratico liberale occidentale.

Il  rischio è che , una volta salite al potere, le nuove forze abbiano comunque un atteggiamento ostile di fronte all’occidente, che non le ha sostenute nel processo di transizione politica.

Anche l’america non sembra, nella mancanza di presa di posizione netta, valutare il rischio che nel passaggio dai vecchi regimi ai nuovi governi si possano inserire poteri radicali.

Il rischio è che le rivoluzioni  vadano alla deriva, se non si appoggiano con mezzi militari e finanziari le forze moderate arabe.

Mentre l’Iran applaude alla caduta delle dittature, nella speranza di indirizzare lo sconvolgimento a proprio vantaggio, l’Europa e l’America non sono lungimiranti.

Schierandosi con le fazioni radicali e incrementando l’opposizione all’ Iran potrebbero indirizzare il cambiamento in positivo.

Il non prendere posizione lascia invece libero il campo all’inserimento nel gioco delle forze islamiste che godono dell’appoggio iraniano.

In tutto questo sovvertimento di equilibri politici, anche il processo di pace arabo israeliano finisce ovviamente per essere coinvolto.

I regimi messi in discussione, pur nelle loro molteplici contraddizioni, hanno operato per anni nel senso di una deradicalizzazione.

I passi avanti fatti in questo senso potrebbero venir meno.

C’è il rischio di una situazione favorevole alla Palestina, in cui questa abbia benefici diplomatici e venga riconosciuta come stato sovrano.

C’è il pericolo di una decisione monolaterale palestinese, che, approfittando della congiuntura politica internazionale, si sottragga alle dinamiche diplomatiche che hanno portato agli ultimi accordi.

Mentre tuttavia il fronte americano si è mostrato da subito favorevole a Israele, gli europei non hanno una chiara visione strategica della situazione.

Sembrano incerti tra la volontà di conservare il rapporto di amicizia con l’America, condividendone la posizione, e la necessità di mantenere le basi di consenso, assecondando i sentimenti filo palestinesi diffusi nelle piazze.

Appoggiare l’istanza filo israeliana degli Stati Uniti significherebbe ignorare le opinioni pubbliche che si scatenano in tutta Europa a favore dei palestinesi.

Altrettanto non chiara è la reazione degli stati arabi moderati, ai quali interessa prioritariamente il contenimento dell’Iran, ma che non sembrano agire chiaramente in altro senso.

I palestinesi cercano dal canto loro di evitare un negoziato diretto con Israele, poiché un approccio unilaterale potrebbe portare a maggiori risultati rispetto a qualunque forma di accordo.

L’errore della diplomazia israeliana è stato, secondo Ottolenghi, il non assecondare gli americani nell’unica azione che questi ritenevano prioritaria per lo sblocco della situazione.Netanyahu avrebbe dovuto estendere il congelamento degli insediamenti, evitando con questa azione politica di trovarsi in disaccordo con l’opinione internazionale di Europa e Stati Uniti, il cui sostegno è di vitale importanza per Israele.

Ottolenghi conclude quindi  con qualche previsione, per cui le soluzioni del 49’ e del 67’ potranno venire confermate nei prossimi accordi internazionali.

L’Europa appoggerà probabilmente i negoziati, ma al contempo fisserà dei contorni e degli obiettivi entro cui muoversi, che non sempre saranno favorevoli ad Israele.