Tump in Medio Oriente: la verità dietro le strette di mano del presidente americano con i grandi leader del mondo arabo

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di David Zebuloni
“L’estrema variabilità con cui cambia opinioni e posizioni dipende esclusivamente da chi è in grado di concludere con lui i migliori affari”. Così Chen Kertcher, vicedirettore del Dipartimento di Medio Oriente e Scienze Politiche dell’Università di Ariel ed esperto di conflitti internazionali, spiega la strategia che sta dietro al viaggio di Trump in Medio Oriente.

Questa settimana un’inaspettata immagine ha catturato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale: il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, stringe orgogliosamente la mano del nuovo leader della Siria, Abu Muhammad al-Joulani, mentre il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman li osserva sorridendo compiaciuto. Si tratta in effetti del primo incontro tra un presidente americano e un presidente siriano da 25 anni, tenutosi nell’ambito della visita di Trump in Medio Oriente. Una visita storica iniziata martedì in Arabia Saudita e poi proseguita in Qatar. Israele, ha annunciato la Casa Bianca, non farà parte della visita – questa volta.

“Non credo sia corretto chiamarla visita”, precisa il dott. Chen Kertcher, vicedirettore del Dipartimento di Medio Oriente e Scienze Politiche dell’Università di Ariel ed esperto di conflitti internazionali, in un’intervista a Makor Rishon. “È il primo viaggio presidenziale di Trump da quando è stato eletto, ed è parte di una campagna strategica generale degli Stati Uniti per riorganizzare il commercio globale a proprio vantaggio. Israele è  una piccola parte di questo grande disegno, e con il passare del tempo viene sempre più messa da parte, a favore di legami strategici importanti che gli Stati Uniti stanno costruendo insieme a una fetta di mondo arabo”.

Trump ha già annunciato che rimuoverà le sanzioni su Damasco, nel tentativo di consentire al paese in difficoltà di intraprendere un nuovo cammino e riprendersi. E non solo: secondo alcune fonti, tra le sue condizioni per la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi, il presidente americano ha richiesto che la Siria aderisca agli Accordi di Abramo ed espella dal proprio territorio tutti i “terroristi palestinesi”. Tuttavia, molti israeliani temono che gli Stati Uniti si stiano sempre più allontanando dallo Stato ebraico per avvicinarsi invece a quei paesi ostili che minacciano la sua sicurezza.

Qual è dunque la natura del nuovo legame che si sta creando tra Stati Uniti, Qatar, Arabia Saudita e Siria? “Trump vuole raggiungere dei nuovi accordi commerciali”, spiega il dott. Kertcher. “Il presidente Americano mira a ottenere dei bilanci commerciali positivi per gli Stati Uniti con dei paesi ricchi e stabili quali Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita. Tre paesi che negli ultimi anni anche la Cina ha cercato di attrarre a sé. Per esempio, abbiamo visto che ciò è già accaduto con l’espansione del gruppo BRICS, che è diventato BRICS Plus. Perciò, secondo Trump, queste sono delle vere manovre d’emergenza, che hanno il solo obiettivo di allontanare il più possibile questi paesi dalla Cina”.

Per quanto riguarda al-Joulani, invece, la situazione è ben diversa. “La Siria non fa parte di questo triangolo, ma senza dubbio ne trae vantaggio”, racconta l’esperto. “Per garantire dei bilanci commerciali positivi agli Stati Uniti, Trump è disposto a chiudere completamente gli occhi di fronte al fatto che in Siria, dopo la caduta del regime di Assad, c’è stata una feroce persecuzione delle minoranze – tra cui alawiti, cristiani e drusi. Ora anche i curdi sono nel mirino”.

Nel frattempo, quel sincero amico degli ebrei, quel presidente repubblicano che aveva promesso mari e monti a Israele, sembra essersi completamente dimenticato del suo storico alleato. “Trump è quel politico che da un lato sostiene Israele ed è disposto a fornirle armi, ma dall’altro chiede di far entrare aiuti umanitari a Gaza nonostante sappia che questi giocano a favore di Hamas”, sottolinea il dott. Chen Kertcher. “Trump è un leader che fino a poco tempo fa diceva che tutta la popolazione di Gaza doveva essere evacuata al più presto, e ora parla invece di far entrare cibo nella Striscia. L’estrema variabilità con cui cambia opinioni e posizioni dipende esclusivamente da chi è in grado di concludere con lui i migliori affari”. Sì, le ultime esternazioni del presidente americano non sono di natura securitaria o geopolitica, ma esclusivamente economica.

“I paesi arabi ne sono ben consapevoli”, prosegue l’esperto di conflitti internazionali, aggiungendo che la sicurezza dello Stato di Israele non è esattamente una priorità per il presidente Trump. “Improvvisamente si comincia a parlare della costruzione di un reattore nucleare per l’Arabia Saudita, e persino della vendita di armi avanzate che, fino a quest’ultimo viaggio diplomatico, costituivano per Israele un chiaro vantaggio tecnologico e strategico. Sì, improvvisamente per gli Stati Uniti non è più un problema concludere affari da centinaia di miliardi con questi paesi – l’importante è che entrino soldi nelle casse americane”.

Secondo il dott. Kertcher, il piano strategico di Trump è molto coerente con le sue priorità, ovvero l’interesse americano. “In primo luogo, il neo presidente vuole migliorare con ogni mezzo possibile la situazione economica e il bilancio commerciale degli Stati Uniti”, chiarisce l’esperto. “Ci troviamo oggi alla soglia di una rivoluzione economica e Trump sente che, se non prenderà delle misure estreme, l’America si troverà in una posizione di svantaggio rispetto alla Cina. E se Israele deve pagare un prezzo elevato affinché ciò accada, a Trump non interessa”.

Fino a che punto gli Stati Uniti, e Trump in particolare, sono capaci di voltare le spalle allo Stato ebraico in un momento storico così delicato per la sua sicurezza e la sua esistenza?

“Dal punto di vista di Trump e di gran parte del suo governo, Israele è un alleato vero, ma non deve ostacolare gli Stati Uniti nel raggiungimento dei suoi interessi. Nel caso dei ribelli Houthi, ad esempio, Israele è rimasta profondamente delusa quando, una mattina, Trump ha annunciato di non voler più combattere contro gli Houthi dello Yemen, mentre questi continuavano a lanciare missili contro Israele. Si tratta di una totale spaccatura tra l’interesse americano e quello israeliano”.

Il presidente Trump è ancora coinvolto nel conflitto a Gaza e nel destino della regione?

“Gli Stati Uniti hanno molteplici piani riguardanti il ‘giorno dopo la Guerra a Gaza’ dei quali il governo israeliano non è assolutamente al corrente. Israele non fa parte delle discussioni circa il futuro della regione e, come si sa, se non sei tu a cucinare il pasto, finirai per essere tu stesso parte del pasto. Ovvero, se Israele non comincia ad essere coinvolta nei piani geopolitica del Medio Oriente – come lo sono invece i sauditi, gli emiratini e i qatarini – rischia di diventare quel paese debole a cui vengono imposti gli interessi strategici ai quali sottostare. E questo è un rischio strategico di prim’ordine per Israele”.

Oltre alle evidenti considerazioni economiche, come può fidarsi Trump dell’Arabia Saudita e del Qatar dal punto di vista della sicurezza?

“L’unico criterio che interessa Trump al momento è ottenere dei profitti rapidi che allontanino immediatamente alcuni paesi dalla loro vicinanza con la Cina. Qui non c’è una visione a lungo termine. Non c’è un piano per il prossimo decennio. Bisogna considerare l’età del presidente Trump e capire che la visione a lungo termine su cosa sarà del Qatar o dell’Arabia Saudita – non lo tocca in alcun modo. Se oggi questi paesi concludono un affare vantaggioso per gli Stati Uniti dal punto di vista economico, per lui è sufficiente. È tutto ciò che lo motiva”.

Qual è il livello di coinvolgimento di Israele nei grandi cambiamenti storici che stanno avvenendo oggi in Medio Oriente?

“Al momento non sembra che le istituzioni israeliane siano coinvolte strategicamente nei dibattiti che riguardano il destino del Medio Oriente. Al momento pare invece che una serie di potenze sunnite stiano concludendo degli accordi cruciali con gli Stati Uniti, e questo non è certo un segnale incoraggiante per lo Stato ebraico”.