di Sofia Tranchina
Continuano nella Striscia di Gaza le mobilitazioni popolari contro l’autorità di Hamas, segnalando un persistente dissenso interno nonostante le gravi condizioni di sicurezza e la militarizzazione del territorio.
Lunedì 19 maggio, a Khan Younis, nel contesto di un imminente attacco su larga scala annunciato dall’esercito israeliano – che ha dichiarato l’area zona di combattimento attivo in vista di un’“offensiva senza precedenti” e ha emesso un avvertimento straordinario di evacuazione – centinaia di cittadini palestinesi sono scesi ancora una volta in piazza chiedendo la fine del conflitto armato e la destituzione del governo de facto di Hamas.
Le manifestazioni, che si sono estese a più aree urbane del sud della Striscia, sono state caratterizzate ancora una volta da slogan espliciti come “Fuori Hamas” e richieste per una governance civile e non armata, auspicando una riorganizzazione istituzionale in grado di rappresentare i bisogni reali della popolazione.
Il gruppo islamista è divenuto espressione quotidiana di un autoritarismo repressivo e autoreferenziale, e i palestinesi, esausti da un anno e mezzo di guerra, con morti, distruzione e insicurezza alimentare, mostrano una crescente esasperazione nei suoi confronti.
Hamas, come documentato da innumerevoli fonti indipendenti, ha implementato una strategia deliberata di militarizzazione della vita civile: tunnel sotto scuole e ospedali, utilizzo sistematico della popolazione come scudo umano, repressione della stampa e delle voci dissidenti. Questa logica strumentale del martirio collettivo ha avuto come unico esito il consolidamento del proprio controllo, a discapito della sopravvivenza della popolazione, e ha compromesso la stessa causa palestinese, e il dialogo con la comunità internazionale.
L’intento dei protestanti non è, evidentemente, di assolvere Israele dalle fondamenta etiche che dovrebbero guidare l’uso della forza militare in un contesto di estrema asimmetria, né dalle gravi responsabilità che ha nei confronti dei civili gazawi vittime del conflitto. «Radere al suolo un territorio con oltre 2 milioni di persone per colpire circa 15.000 terroristi, al fine di raggiungere 23 ostaggi vivi e 35 corpi — che prego Dio vengano salvati e liberati al più presto — sembra qualcosa di ampiamente sproporzionato, incredibilmente irresponsabile», scrive l’attivista palestinese Ahmed Fouad Alkhatib, aggiungendo: “Ma — e non fatevi ingannare — Hamas ha preso decisioni che ci hanno portati fin qui; Hamas è un partner malvagio nella distruzione dei sogni e delle aspirazioni del popolo palestinese».
Ahmed Fouad Alkhatib ha sottolineato anche le differenze abissali tra le condizioni del dissenso in Israele e quelle nella Striscia: criticare il governo israeliano comporta costi sociali; opporsi a Hamas significa mettere a rischio la propria vita. Nonostante ciò, i gazawi persistono nelle loro richieste di demilitarizzazione, assistenza umanitaria e sovranità civile. Il fatto stesso che tali richieste vengano articolate in contesti di estrema vulnerabilità, sotto minaccia costante, restituisce soggettività politica ai gazawi, non come strumenti di una causa, ma come agenti di cambiamento che rivendicano i propri diritti.
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La crescente dissonanza tra una parte significativa della società civile palestinese e l’apparato autoritario di Hamas si è inasprita a seguito dell’intensificarsi delle operazioni militari, dell’acuirsi delle condizioni umanitarie e della sistematica negazione di diritti fondamentali perpetrata dal gruppo islamico.
Le violazioni della libertà di stampa sono state documentate dal Committee to Protect Journalists (CPJ). Giornalisti come Tawfiq Abu Jarad e Ibrahim Muhareb hanno subito minacce, pestaggi e intimidazioni da parte di Hamas per aver tentato di documentare proteste e condizioni di vita nella Striscia: «Quando il giornalista gazawo Tawfiq Abu Jarad ha ricevuto una telefonata da un agente della sicurezza di Hamas che lo avvertiva di non coprire una protesta, ha subito obbedito: era già stato aggredito una volta da forze affiliate a Hamas».
Secondo le testimonianze raccolte, le autorità di Hamas non esitano ad equiparare il giornalismo critico allo spionaggio, legittimando così la repressione e contribuendo a instaurare un clima di autocensura generalizzata. Il raro giornalismo indipendente a Gaza sopravvive in condizioni estreme, tra minacce dirette e l’omertà imposta dalla paura.
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L’inerzia dell’occidente “propalestinese”
In questo scenario, appare paradossale l’inerzia di parte del mondo accademico, dei movimenti sociali e dei media, spesso pronti a mobilitarsi contro le violazioni dei diritti umani in altri contesti, ma reticenti nel riconoscere le dinamiche autoritarie interne ai contesti che si presume di difendere. Questa reticenza non solo indebolisce la credibilità morale delle istituzioni e degli attori coinvolti, ma contribuisce anche a perpetuare un’ingiustizia che silenzia le vittime quando esse non rientrano nei canoni ideologici dominanti. Il silenzio o la marginalizzazione operata riguardo alle manifestazioni diventa ingombrante. La mancata copertura e l’assenza di reazioni sollevano interrogativi sull’onestà intellettuale con cui viene affrontata la questione palestinese, e in particolare sulla capacità dell’opinione pubblica di elaborare una comprensione complessa e disallineata dagli schemi dicotomici a cui siamo abituati.
L’attivista Hamza Howidy, figura di riferimento del movimento Bidna Naish, afferma che le manifestazioni rappresentano “una maggioranza”, che non è “silenziosa”, ma “silenziata”. Vengono escluse dal dibattito internazionale le voci dissidenti, che invece andrebbero protette e valorizzate proprio per la loro capacità di sfidare il pensiero dominante.
«I cosiddetti giornalisti “indipendenti” di testate filo-palestinesi come The Intercept, DropSite News, Zeteo, Democracy Now, Al Jazeera, The Guardian, Amnesty International o Human Rights Watch non documentano la brutalità di Hamas contro manifestanti o giornalisti palestinesi a Gaza», scrive Ahmed Fouad Alkhatib. «Hamas promuove solo una manciata di reporter altamente selezionati per raccontare la guerra esclusivamente da una prospettiva antisraeliana e che non osano mai criticare l’organizzazione. Gli altri, devono autocensurarsi per sopravvivere».
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La solidarietà con il popolo palestinese, se intesa come espressione di un’etica politica coerente e non come riflesso ideologico, impone di distinguere chiaramente quello che è un regime autoritario che esercita il potere tramite coercizione, propaganda e repressione.
Le manifestazioni di Khan Younis chiedono di restituire complessità al discorso sulla Palestina, con rigore analitico, coscienza morale e responsabilità storica, e smascherare le narrazioni che riducono il conflitto a un teatrino ideologico.
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