di Nina Deutsch
Gli attacchi americani e israeliani hanno distrutto le strutture chiave, ma Teheran avverte: «La tecnologia è intatta, possiamo ricostruire».
Una pausa forzata, ma non una resa. Secondo quanto dichiarato dal portavoce del Pentagono Sean Parnell durante un briefing del 2 luglio, i recenti attacchi statunitensi contro le infrastrutture nucleari iraniane avrebbero rallentato il programma atomico di Teheran fino a due anni. Un’affermazione significativa, che rilancia l’interrogativo su quanto siano stati efficaci – e soprattutto risolutivi – i raid condotti da Washington e Tel Aviv contro i siti chiave del programma nucleare iraniano.
«Abbiamo ridotto il loro programma di almeno uno o due anni», ha dichiarato Parnell. «Pensiamo a un tempo più vicino ai due anni» – parole che riecheggiano quanto affermato dallo stesso Donald Trump all’indomani degli attacchi, definendoli un successo totale.
L’operazione: potenza e precisione
Gli attacchi, avvenuti lo scorso 22 giugno, sono stati di portata straordinaria: oltre 125 velivoli statunitensi, tra cui bombardieri stealth B-2 e caccia F-35, hanno colpito tre impianti nucleari con bombe bunker-buster da 30.000 libbre e missili da crociera Tomahawk lanciati da un sottomarino. L’obiettivo era chiaro: neutralizzare le capacità dell’Iran di arricchire uranio a fini militari e ostacolarne il programma missilistico.
Israele, dal canto suo, aveva già avviato una campagna aerea intensa il 13 giugno, mirata a infrastrutture nucleari, scienziati e figure militari di alto rango, ribadendo la volontà di impedire in ogni modo che Teheran sviluppi armi nucleari.
Ma quanto è stato realmente colpito?
Nonostante l’entusiasmo statunitense, le analisi sull’efficacia dell’operazione sono tutt’altro che univoche. In un’intervista rilasciata alla CBS, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi ha confermato che le strutture del sito di Fordow sono state «gravemente danneggiate», ma ha precisato: «La tecnologia e il know-how sono ancora lì».
Un’affermazione che apre un interrogativo fondamentale: distruggere impianti è sufficiente, se la conoscenza per ricostruirli resta intatta?
A ciò si aggiungono le preoccupazioni sollevate dal direttore dell’AIEA Rafael Grossi, secondo cui l’Iran sarebbe ancora in grado di arricchire uranio nel giro di pochi mesi, anche dopo gli attacchi. Alcuni esperti sostengono inoltre che parte delle scorte di uranio altamente arricchito – già al 60%, un passo dal livello militare – siano state spostate da Fordow prima dei bombardamenti, rendendo vano l’obiettivo di neutralizzarle.
La Defense Intelligence Agency (DIA) aveva inizialmente stimato un ritardo di «alcuni mesi» nel programma iraniano, ma quella valutazione è stata rapidamente superata da altre più ottimistiche, secondo cui il danno sarebbe stato ben più profondo. Tuttavia, il Segretario alla Difesa Pete Hegseth ha ammesso di non avere conferme su un eventuale trasferimento dell’uranio arricchito prima degli attacchi.
Guerra tecnologica e propaganda
In questa guerra di dichiarazioni, emerge un doppio binario: da un lato, la determinazione dell’amministrazione Trump a mostrare i muscoli dopo il fallimento delle vie diplomatiche con Teheran; dall’altro, la consapevolezza che la capacità nucleare non si misura solo in strutture fisiche, ma soprattutto in conoscenza scientifica, organizzazione clandestina e resilienza strategica.
Israele ha fatto sapere di avere informazioni secondo cui Teheran avrebbe già tentato di costruire una bomba, e ha promesso nuove azioni militari qualora il programma dovesse essere ricostruito.
Iran: civili o armi?
Teheran continua a dichiarare che il proprio programma ha finalità esclusivamente civili. Ma il rifiuto di accettare ispezioni internazionali, la purezza dell’uranio arricchito e l’espansione del programma missilistico pongono legittimi dubbi. E se, come dice Araqchi, «la gente non si tirerà indietro facilmente dall’arricchimento», è difficile pensare che la fine della partita sia davvero vicina.
Gli attacchi hanno certamente segnato un colpo duro alle infrastrutture nucleari iraniane, ma la loro efficacia sul lungo termine resta da dimostrare. Come ha osservato un analista del think tank Institute for Science and International Security, «si può bombardare un impianto, ma non si può bombardare un’idea».
Il rischio, ora, è un’escalation. E che dietro la “pausa” forzata del programma nucleare iraniano si stia già preparando il prossimo atto. In silenzio, sotto terra, ma più determinato che mai.
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