di Sofia Tranchina
Tra grandi successi e affermazioni ambigue, il presidente della controversa organizzazione americana risponde ai giornalisti.
Da una sala conferenze a Bruxelles, il Reverendo Johnnie Moore Jr – ex consigliere spirituale evangelico di Donald Trump e oggi Executive Chairman della Gaza Humanitarian Foundation – ha presentato a una platea di giornalisti europei il più discusso sistema di distribuzione alimentare operativo nella Striscia di Gaza.
Nata per portare aiuti umanitari ai civili palestinesi, la GHF è divenuta presto epicentro di uno scontro politico e simbolico che va ben oltre i sacchi di farina e le scatolette d’olio distribuiti nei suoi hub blindati.
Moore si è presentato come un uomo solo contro un mondo ostile: ha parlato di “campagne di disinformazione”, di ONG “politicizzate”, e di una stampa internazionale più interessata a screditare che a verificare. Il tutto mentre i suoi operatori coraggiosi affrontano rischi quotidiani per nutrire una popolazione stremata. «Avremmo potuto aspettare il cessate il fuoco, ma la gente di Gaza aveva fame. Non potevamo aspettare».
Predicatore esperto, Moore ha elencato i successi numerici della sua organizzazione: «in due mesi, tra due guerre, abbiamo distribuito gratuitamente 55 milioni di pasti ai palestinesi». Un numero eccezionale che supera ogni aspettativa, che dovrebbe parlare da sé e placare le polemiche. Il messaggio è: mentre gli altri discutono, GHF distribuisce il cibo.
Per dimostrare la bontà del sistema, Moore ha annunciato che la fondazione sta anche pianificando di portare pubblico – forse giornalisti o diplomatici – presso i centri di distribuzione. Ma, per ora, non sarebbe logico deviare le risorse limitate per proteggere ospiti, togliendole alla distribuzione degli aiuti stessi.
Ma ammesso che il numero di pasti distribuiti sia reale, restano aperti diversi dubbi: in che condizioni vengono consegnati? E cosa succede nei dintorni di quegli hub “sicuri”?
C’è del sadismo nel costringere persone esauste a camminare sotto il sole per chilometri tra le macerie, per ricevere un pesante sacco di farina da portare a casa sulle spalle, o è solo una falla organizzativa? Secondo Moore, «è sempre stato il piano passare da 4 a 8 centri», ma questo non è stato possibile a causa della guerra di disinformazione che li forza a spostare le energie nel difendersi. E, nonostante i soli quattro hub attualmente attivi – numericamente insufficienti rispetto al fabbisogno – la GHF avrebbe comunque distribuito più pasti dei suoi predecessori. Moore ha anche sottolineato che l’intento della fondazione non è mai stato di sostituire l’ONU o le ONG, ma di collaborare per costruire un sistema capillare e funzionale.
Secondo denunce di terzi, centinaia di civili sarebbero stati uccisi nei pressi dei hub della fondazione, che fungerebbero da trappole mortali, ma Moore ripete a macchinetta: «non-abbiamo-registrato-un-singolo-incidente-violento-presso-i-nostri-hub-o-nelle-immediate-vicinanze», e «quello-che-dico-è-al-cento-per-cento-vero».
Se da un lato cade nella tautologia «non so ciò che non so» (come se non spettasse al presidente esecutivo sapere cosa avviene nella sua organizzazione), dall’altro rassicura: «i nostri operatori sono molto esperti, e queste non sono cose di cui potresti non accorgerti».
Eppure al contempo ha affermato che «non esiste sistema umanitario a Gaza che non sia mortale al momento» (There is no humanitarian system in Gaza that isn’t deadly at the moment), e che le vittime civili sono inevitabili in una zona di guerra tanto pericolosa. E ancora, ha definito l’IDF un «esercito professionale che indaga ogni volta che c’è un incidente e lo riporta con trasparenza.»
Allora: gli incidenti non ci sono, oppure ci sono e vengono indagati? O ancora, ci sono ma sono inevitabili in zona di guerra?
Il pubblico è inquietato dalla percepita impermeabilità della fondazione a verifiche terze, e il suo stretto coordinamento con le forze israeliane – presenti sul posto e attivamente coinvolte – non contribuisce a rafforzare l’impressione di neutralità. A fronte di dichiarazioni misurate e smentite concise, la sensazione è che una parte della verità resti fuori campo.
Moore ripete: “i report sono falsi, Hamas manipola i media, le ONG sono politicizzate.” Sacrosanto. E dunque, perché dovremmo credere che questa organizzazione, tanto opaca quanto le altre, sfugga alle stesse logiche di potere e influenza che denuncia?
Ad ogni modo, al netto di tutte le riserve che si possono nutrire verso la retorica dei frontman, resta un fatto ineludibile: la GHF è l’unico sistema ad aver operato, finora, al di fuori del controllo di Hamas, mentre le strutture di UNRWA e WFP – pur con legittimità formale – hanno mostrato gravi falle in termini di imparzialità e gestione.
Eppure nessuno sembra essersi affannato troppo a chiedere chiarezza all’UNRWA. Nessuna crociata mediatica, nessuna indignazione a tempo pieno. Un’evidente disparità che spinge a domandarsi se chi scaglia pietre contro la GHF lo faccia davvero per spirito umanitario.
Per interessi politici o personali, sono in molti ad essersi accaniti a delegittimare la GHF, anche a costo di diffondere notizie infondate, sulla pelle della popolazione affamata.
Come la voce, lanciata dall’Ufficio Stampa di Hamas e rilanciata da Al Jazeera, che ipotizzava la presenza di ossicodone nei pacchi alimentari: questa ha trovato ampio spazio sui media internazionali, senza che nessuno si preoccupasse di fornire prove.
In un altro caso emblematico, a inizio giugno Hamas ha accusato falsamente la GHF di un’esplosione presso uno dei suoi siti, a Rafah. La fondazione ha poi diffuso i filmati di sorveglianza del centro, che smentivano la ricostruzione, insistendo sul fatto che non si era verificato alcun incidente presso il loro sito o nelle sue vicinanze. Alcuni media internazionali – tra cui il Washington Post – hanno successivamente corretto o chiarito le prime versioni: questo dimostra quanto rapidamente la disinformazione possa attecchire, e quanto poco basti per screditare un’organizzazione. Il caso ha anche rivelato una certa disinvoltura da parte di chi, più che informare, sembra impaziente di demolire.
Gli interessi di Hamas – che prima riusciva a sequestrare interi camion di rifornimenti destinati ai civili, rivendendoli poi a caro prezzo (indagini dell’AIJAC stimano che Hamas abbia incassato oltre 50–100 milioni di dollari al mese in questo modo) – sono ovvi. Il gruppo ha regolarmente ostacolato e talvolta diffuso accuse contro chi ora distribuisce aiuti senza il suo controllo; ha minacciato i civili che si servono degli aiuti di GHF, ed è arrivato a uccidere operatori gazawi della fondazione.
Nel frattempo, non sembrerebbe un problema, per i militanti di Hamas, aprire il fuoco su civili in fila per ricevere aiuti, per poi attribuire le vittime all’IDF o alla GHF. I24News riporta testimonianze dirette di colpi esplosi nei pressi dei centri di distribuzione, mentre un’analisi del FDD ha individuato filmati in cui terroristi palestinesi avrebbero aperto il fuoco su civili in procinto di ricevere assistenza.
GHF non è un sistema neutrale, non è trasparente, è probabilmente non è equo. Ma, nel contesto in cui opera, è l’unico sistema attualmente in funzione e apparentemente efficace, e smantellarla per principio potrebbe significare abbandonare un’intera popolazione a una profonda insicurezza alimentare.