di Sofia Tranchina
Nella notte di mercoledì 11 giugno, intorno alle 22:00 locali, un autobus che trasportava operatori umanitari della Gaza Humanitarian Foundation (GHF) è stato attaccato nei pressi della moschea di Quba, a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. Secondo quanto riportato dalla fondazione, il veicolo trasportava oltre due dozzine di lavoratori palestinesi diretti verso un centro di distribuzione. L’attacco ha provocato la morte di otto persone e il ferimento di molte altre, tutti civili coinvolti nelle attività logistiche della fondazione.
L’agguato, secondo la GHF, è stato condotto da militanti affiliati a Hamas. La compagnia palestinese Al-Khazindar, partner operativo della fondazione nella regione, ha confermato questa ricostruzione, indicando esplicitamente Hamas come responsabile diretto. “Hamas li ha colpiti dopo diverse minacce, e non ci saremmo mai aspettati che la situazione degenerasse fino ad assassinare questi operatori,” ha dichiarato alla CNN il direttore dell’azienda, Raafat Al-Khazindar, che ha aggiunto: “altri operatori sono stati picchiati e colpiti con armi da fuoco.”
L’attacco è avvenuto dopo giorni di esplicite minacce rivolte dalla leadership di Hamas agli operatori locali della GHF. Già sabato, l’organizzazione aveva avvertito pubblicamente della crescente pericolosità della situazione, sospendendo temporaneamente le distribuzioni. Dopo l’uccisione, la GHF ha chiesto la restituzione dei corpi alle famiglie per la sepoltura e ha ribadito che le vittime erano “operatori umanitari. Padri, fratelli, figli e amici che rischiavano ogni giorno la vita per aiutare gli altri.”
Nelle ore successive, la fondazione ha lanciato un appello alla comunità internazionale affinché condanni l’azione di Hamas. “Stasera, il mondo deve riconoscere questo per ciò che è: un attacco contro l’umanità,” ha dichiarato l’organizzazione. Il direttore ad interim, John Acree, ha annunciato la prosecuzione delle attività: “Abbiamo deciso che la miglior risposta ai codardi assassini di Hamas era continuare a distribuire cibo alla popolazione di Gaza che conta su di noi.”
Secondo Euronews, l’attacco sarebbe stato condotto dall’unità Sahm, un corpo di sicurezza interna di Hamas già noto per operazioni repressive contro individui o gruppi sospettati di collaborazionismo.
Subito dopo l’attacco, canali social affiliati a Hamas hanno sostenuto che l’autobus trasportasse uomini legati a Yasser Abu Shabab, promuovendo una narrazione secondo cui le vittime non sarebbero state civili, ma membri di un gruppo rivale accusato di collaborare con Israele. Un video diffuso da fonti vicine a Hamas mostra corpi senza vita in strada, accompagnati dalla rivendicazione dell’uccisione di “miliziani affiliati ad Abu Shabab, arrestati e giustiziati per collaborazione con Israele.”
Tali dichiarazioni, prive di prove verificabili, sono state smentite dalla GHF e dallo stesso Abu Shabab. La GHF ha negato qualsiasi legame tra le vittime e il clan, ribadendo che si trattava di lavoratori civili impiegati esclusivamente in compiti umanitari. Ha inoltre sottolineato che le proprie attività si svolgono in autonomia rispetto a eventuali operazioni militari israeliane, specificando che l’esercito fornisce solo protezione perimetrale agli hub logistici.
Abu Shabab ha smentito pubblicamente ogni coinvolgimento, accusando Hamas di diffondere propaganda per “seminare paura tra coloro che cercano il cambiamento e la liberazione dal terrorismo.” Ha definito le accuse “strumentali e false” e ha condannato la diffusione delle immagini dei corpi.
L’attacco si colloca in una cornice repressiva già delineata nei giorni precedenti. In un comunicato diffuso domenica, Hamas aveva annunciato che le sue forze di sicurezza avevano “piena autorità e mandato per colpire con decisione qualsiasi entità o individuo che collabora con i piani del nemico o con elementi criminali e traditori.” Lo stesso comunicato definiva “agenti, ladri e bande criminali armate” come bersagli legittimi della resistenza.
In questo contesto, la GHF ha anche dichiarato che “alcuni lavoratori potrebbero essere stati presi in ostaggio,” sebbene l’informazione non sia stata confermata da altre fonti né accompagnata da dettagli.
L’attacco all’autobus rappresenta un momento critico per la GHF, che già affrontava tensioni crescenti nei punti di distribuzione: sovraffollamento, caos, violenze e intimidazioni. Esso appare come un’escalation nella strategia di Hamas volta a delegittimare e ostacolare ogni iniziativa umanitaria percepita come esterna al proprio controllo, soprattutto se sostenuta da Israele. Si conferma così la crescente sovrapposizione tra attività civili e dinamiche militari in un contesto dove le distinzioni tra aiuto e propaganda, tra civile e combattente, si fanno sempre più labili.
A complicare ulteriormente il quadro è la situazione presso i centri di distribuzione. Mercoledì mattina diverse persone sono rimaste ferite e alcune uccise nei pressi di uno degli hub della GHF. Nebal Farsakh, portavoce della Mezzaluna Rossa Palestinese, ha detto al New York Times che almeno alcune delle vittime sono state causate da colpi di arma da fuoco israeliani contro civili in attesa di aiuti. L’esercito israeliano ha ammesso di aver sparato colpi di avvertimento nei pressi di individui ritenuti una minaccia, ma ha negato di aver preso di mira civili. La GHF, dal canto suo, ha chiarito che i propri centri erano chiusi al momento degli spari e che non vi era alcun coordinamento con le forze israeliane in quell’intervallo di tempo. L’organizzazione ha più volte avvertito i media “di non confondere l’opinione pubblica riportando le operazioni della GHF insieme a quelle militari israeliane, che avvengono altrove”.
GHF e Nazioni Unite

L’IDF ha in più occasioni invitato la popolazione gazawi a non avvicinarsi ai centri di distribuzione prima delle 6:00 del mattino, per motivi di sicurezza. Tuttavia, l’attacco all’autobus si è verificato intorno alle 22:00, e la pagina Facebook araba della GHF indicava una distribuzione di cibo prevista per le 3:00. La decisione di effettuare operazioni in orari notturni resta inspiegata, sollevando dubbi sulla gestione logistica e sulla comunicazione operativa della fondazione.
La Gaza Humanitarian Foundation (GHF) è una fondazione privata americana che ha avviato le sue operazioni nella Striscia di Gaza alla fine di maggio 2025, con l’obiettivo dichiarato di “alleviare le sofferenze della popolazione civile”.
Fin dall’inizio, il suo modello si è posto come alternativa alle agenzie delle Nazioni Unite, con il sostegno esplicito del governo israeliano, che accusa da tempo Hamas di dirottare gli aiuti internazionali. In questo contesto, la GHF è stata promossa come uno strumento per garantire la consegna diretta di beni essenziali — cibo, acqua, medicinali, materiale igienico — alla popolazione civile, riducendo al minimo l’intermediazione di soggetti locali. Il suo principio operativo dichiarato è la neutralità umanitaria, con un obiettivo tecnico preciso: fornire in media 1.750 kcal al giorno per persona attraverso pasti preconfezionati.
Il sistema logistico della GHF si basa su quattro hub principali, situati nel sud e nel centro della Striscia. Questa struttura centralizzata, giustificata con esigenze di sicurezza e logistica, ha consentito un incremento significativo nella capacità di distribuzione: dai circa 1 milione di pasti al giorno garantiti dal sistema ONU prima del suo blocco, si è passati a un record di 2,6 milioni di pasti in un giorno (equivalenti a una media di 1,24 pasti per persona).
Tuttavia, l’assenza di una rete capillare — a differenza del modello precedente, che contava fino a 400 punti di distribuzione attivi — ha portato a concentrazioni elevate di popolazione attorno ai pochi hub disponibili. Questo ha generato situazioni di sovraffollamento, disordini, e in alcuni casi episodi di violenza, con feriti e vittime. La fondazione ha riconosciuto la criticità, ma ha ribadito che l’attuale configurazione è l’unica logisticamente sostenibile in un contesto privo di sicurezza capillare.
La GHF ha inoltre deciso di non operare nel nord della Striscia di Gaza, dove si registra la crisi alimentare più acuta. Una scelta motivata da ragioni di sicurezza, ma che ha alimentato forti critiche per la mancanza di equità geografica: vaste aree rimangono tuttora escluse dalla distribuzione regolare di aiuti.
Oltre ai limiti strutturali, la fondazione è stata oggetto di critiche sul piano della neutralità. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha sollevato dubbi sull’indipendenza effettiva della GHF, denunciando la presenza di personale armato e il coinvolgimento logistico, seppur limitato alla protezione esterna, dell’esercito israeliano. Particolarmente contestata è l’adozione della tecnologia di riconoscimento facciale agli ingressi dei centri: secondo fonti interne, questo sistema servirebbe a identificare e potenzialmente escludere affiliati a Hamas. Presentata come misura di sicurezza contro infiltrazioni armate, la pratica ha suscitato preoccupazioni sul piano della privacy, della discriminazione e della fiducia della popolazione locale.
Un momento chiave nella storia della fondazione è rappresentato dalle dimissioni, il 25 maggio, del direttore esecutivo Jake Wood, avvenute appena un giorno prima dell’inizio delle operazioni ufficiali. Nella dichiarazione con cui ha lasciato l’incarico, Wood ha citato “l’impossibilità di rispettare i principi umanitari in un contesto operativo condizionato da interessi strategici esterni.” Le sue dimissioni hanno alimentato dubbi sull’autonomia reale della fondazione e sul grado di influenza esercitato dagli attori militari coinvolti nel conflitto.
La presenza della GHF ha fin da subito suscitato la reazione ostile di Hamas, che ne percepisce l’operato come una minaccia diretta alla propria autorità e al monopolio sul controllo degli aiuti. Numerosi rapporti documentano episodi di sabotaggio e intimidazione: video circolati online mostrano agenti di polizia di Hamas che sottraggono con la forza il cibo distribuito dagli operatori umanitari, mentre altre fonti parlano dell’accumulo di scorte da parte del gruppo nei tunnel sotterranei.
Secondo la GHF, Hamas ha anche minacciato la popolazione civile per impedirle di accedere agli hub, accusando la fondazione di essere parte di un “complotto israelo-statunitense.” Queste dichiarazioni sembrano funzionali alla volontà del gruppo di mantenere il controllo politico e sociale sulla distribuzione degli aiuti, che rappresentano anche una leva di consenso interno.
Nonostante il contesto estremamente polarizzato e i numerosi ostacoli — logistici, politici e militari — i dati finora disponibili mostrano che la GHF ha avuto un impatto significativo nella distribuzione materiale degli aiuti a Gaza. Rimane però aperta la questione della sostenibilità a lungo termine: senza un quadro di legittimazione condivisa, né una protezione effettiva da parte di una governance internazionale, ogni iniziativa umanitaria rischia di diventare un bersaglio in un conflitto che intreccia sicurezza, propaganda e sopravvivenza civile.
Oltre la retorica
L’attacco al bus della Gaza Humanitarian Foundation mette in luce le distorsioni strutturali che paralizzano la gestione della crisi umanitaria a Gaza. Hamas, pur proclamandosi difensore della popolazione civile, attua strategie di controllo e repressione che colpiscono chiunque operi al di fuori del suo apparato. La sua volontà di monopolizzare la distribuzione degli aiuti si traduce in azioni sistematiche che ostacolano l’accesso sicuro e imparziale ai beni essenziali per una popolazione allo stremo.
Parallelamente, la militarizzazione delle reti umanitarie da parte di Israele e l’assenza di una governance neutrale hanno ulteriormente compromesso la capacità di risposta. In questo scenario, la GHF si è inserita come un attore atipico: tecnicamente efficace ma politicamente esposto, capace di rompere vecchi equilibri senza offrire un modello pienamente condiviso. La sua esperienza dimostra che, in assenza di un meccanismo credibile di protezione e coordinamento internazionale, anche l’aiuto umanitario rischia di trasformarsi in un’estensione del conflitto.