Centinaia di artisti inglesi annunciano il boicottaggio culturale di Israele

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di Stefania Ilaria Milani

boycottVenerdì 13 febbraio, quasi in contemporanea agli attentati compiuti dal ventiduenne danese Omar Abdel Hamid El-Hussein nella città di Copenaghen, più di 100 artisti britannici hanno annunciato il lancio di un boicottaggio culturale rivolto espressamente ai danni di Israele e capitanato da due celebrità ebraiche nazionali: i registi del piccolo e grande schermo Peter Kosminsky (nipote di un sopravvissuto alla Shoah, si era già occupato del conflitto israelo-palestinese in una serie TV del 2011 intitolata “The Promise“) e Mike Leigh.

«Oggi annunciamo, insieme a più di 600 altri nostri colleghi, che da adesso in poi non ci impegneremo in relazioni né culturali né lavorative con lo Stato di Israele», ha scritto il gruppo di attivisti in una lettera ufficiale pubblicata sabato 14 febbraio sul quotidiano The Guardian. E i tempi della messa in stampa non avrebbero certo potuto essere peggiori.

Secondo tale comunicato, il divieto includerebbe l’accettazione di inviti professionali o di finanziamenti provenienti da qualunque Istituzione legata al governo mediorientale.

«Dalle azioni di guerra svoltesi quest’estate nel territorio della Striscia di Gaza, il popolo palestinese non ha potuto godere di alcuna tregua da parte dell’implacabile violenza di Israele nella loro terra, nella loro vita, nel loro diritto a esistere», viene precisato, rilevando, inoltre, che l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem descrive il 2014 come “uno degli anni maggiormente crudeli e mortali nella storia dell’occupazione”.

Tra i notevolissimi firmatari dell’iniziativa troviamo il regista Ken Loach, il musicista Brian Eno e il critico d’arte John Berger. Anche il cantautore Roger Waters, ben noto alle cronache per il suo disappunto circa la politica difensiva di Netanyahu, ha deciso di partecipare alla campagna pro-Palestina. L’elenco completo degli oltre 700 sostenitori è consultabile sul sito web Artists for Palestine UK.

«Le guerre di Israele si combattono fin troppo sul fronte culturale – spiega chi ha aderito -. Il suo esercito attacca le istituzioni e impedisce la libera circolazione dei lavoratori della Cultura. Durante l’apartheid sudafricano, nel 1985, moltissimi musicisti proclamarono che non avrebbero mai più suonato nel resort Sun City. Ora noi stiamo dicendo a Tel Aviv, Netanya, Ashkelon o Ariel, non solo che non suoneremo, ma pure che non accetteremo premi, non presenzieremo a mostre – festival o conferenze, non terremo masterclass e workshop finché non rispetteranno il Diritto Internazionale e daranno un taglio all’oppressione coloniale dei palestinesi».

Sempre la scorsa settimana, il gruppo parlamentare contro l’antisemitismo All-Party ha presentato un rapporto forense di 120 pagine (APPG) nel quale gli stessi parlamentari e i membri della Camera dei Lord criticano con forza i boicottaggi culturali. «I cittadini hanno, sì, il diritto di protestare contro Israele attraverso mezzi che siano pacifici. Tuttavia, l’opposizione diventa assolutamente illegittima, quando costituisce un attacco o addirittura un’intimidazione nei confronti degli ebrei anglosassoni. Abbiamo stabilito che il boicottaggio culturale, attuato nei modi già visti in passato, è del tutto inaccettabile. Il movimento dovrà affrontare la sfida di agire, perseguendo il proprio obiettivo, senza scivolare nell’antisemitismo più bieco, nella discriminazione illecita o aggredendo il comune valore di Libertà», si legge nella relazione.

In un’intervista rilasciata al Times of Israel, Laura Marks, vice-presidente senior del Consiglio dei Deputati degli Ebrei Inglesi, definisce il progetto “offensivo e razzista”. «C’è qualcosa di ironico nella volontà di un boicottaggio culturale nei giorni in cui le vittime degli attentati europei sono persone che avevano soltanto il desiderio di esprimersi. Com’è possibile cambiare rotta se questi artisti preferiscono chiudere i ponti? Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, e loro continueranno a collaborare con ogni tipo di regime dispotico piuttosto che con lo Stato Ebraico?», ha detto la Marks.

Così, invece, il Presidente della Federazione Sionista UK Paul Charney: «L’annuncio, in realtà, ci offre un prezioso spaccato su cosa pensa la categoria dei cosiddetti “autoproclamati guardiani morali”. Si potrebbe comprendere la voglia di “fare qualcosa” solo se Israele fosse in prima pagina, ma è chiaro che la loro ossessione li costringe a tirare in ballo lo Stato Ebraico anche quando il mondo sta guardando altrove. Forse credono che l’inimmaginabile spargimento di sangue avvenuto in Siria e l’uccisione dei cristiani siano piccoli ostacoli che ingiustamente distraggono l’attenzione da un soggetto principale… Lo slogan BDS di qualche anno fa (“Boycott, Divestment and Sanctions for Palestine”) mostra dove stanno le loro priorità e, altresì, l’impegno a tagliar fuori tutto quello che potrebbe mettere in discussione i loro preconcetti. Sebbene alcuni ritengano che boicottare Israele non sia di per sé un atto antisemita, l’ostilità, nemmeno troppo celata, verso ciò che lo riguarda non fa che facilitare la diffusione dell’idea che lo Stato Ebraico sia nocivo.»

Infine Jonathan Arkush, vice-presidente della Camera dei Deputati, si è riferito alla vicenda chiamandola «una trovata bigotta, fanatica, odiosa e i firmatari sono semplicemente un line-up dei soliti noti che odiano Israele. La demonizzazione ossessiva contribuisce a creare un ambiente in cui gli estremisti, islamici e non, si sentono incoraggiati a colpire gli ebrei.»