Il grattacielo Libeskind a City Life Milano. Una torre di polemiche

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Se si sale fino ai 185 metri s.l.m. del Monte Stella, la collina inventata nel 1947 da Piero Bottoni all’’interno del QT8, e si guarda verso il centro di Milano si notano i lavori in corso sull’’area della vecchia Fiera. Se si sovrappone al profilo attuale quello che sarà prodotto dai tre grattacieli di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind è difficile non provare un senso di spaesamento. I nuovi edifici non solo saranno fuori scala rispetto contesto, ma soprattutto saranno molto più alti dei grattacieli storici di Milano, come il Pirellone, la Velasca o la torre Galfa.

Nelle ultime settimane le critiche al progetto sull’’area della vecchia Fiera, invece che concentrarsi sui controversi aspetti economici e urbanistici dell’’operazione, hanno puntato la propria attenzione solo sull’’estetica della torre di Daniel Libeskind, il più “piccolo” ma anche il meno convenzionale dei tre edifici. Perfino Silvio Berlusconi si è sentito in dovere di prendere posizione contro la “torre sbilenca” che, a dire il vero, è nota dal 2004, anno di aggiudicazione del Concorso a inviti.

Daniel Libeskind è una delle figure più note dell’’architettura contemporanea, uno dei massimi interpreti di quel linguaggio decostruttivista che dai primi anni Novanta si è progressivamente affermato a livello mondiale come una nuova avanguardia.
Nato nel 1946 in Polonia da due sopravvissuti alla Shoah, Libeskind ha avuto una formazione eterodossa: comincia infatti come studente di musica e completa gli studi in Israele. In seguito si trasferisce a New York per frequentare la celebre scuola di architettura della Cooper Union for the Advancement of Science and Art. Dopo varie esperienze di ricerca e insegnamento, ottiene un posto nella mostra “Deconstructivist Architecture”, curata da Philip Johnson al MOMA di New York nel 1988, che segna l’inizio di una nuova stagione per l’architettura e consacra un gruppo di progettisti che tuttora dominano la scena mondiale. È però grazie alla vittoria nel concorso per il nuovo Museo Ebraico di Berlino nel 1989, che Libeskind ottiene il pieno riconoscimento della sua ricerca espressiva. L’opera di Berlino è in effetti un autentico capolavoro grazie alle sue geometrie estreme e allo stretto rapporto tra l’edificio e la sua narrazione interna.

Gli ultimi quindici anni sono ricchi di progetti e realizzazioni: tra queste vale la pena ricordare l’Imperial War Museum a Manchester (1997-2002), il Denver Art Museum (2000-2006), il Royal Ontario Museum (2002-2007).
Molte le opere legate a temi ebraici: oltre al Museo di Berlino, ampliato da poco con un’elegante glass courtyard, Libeskind è autore della Felix Nussbaum Haus a Osnabruck (1995-98), dedicata al pittore ebreo ucciso ad Auschwitz, del Danish Jewish Museum a Copenaghen (2003), del Wohl Centre all’interno del Campus universitario di Ramat Gan (2005), del Contemporary Jewish Museum a San Francisco (di prossima inaugurazione).

L’’intervista rilasciata da Libeskind al Corriere lo scorso 9 aprile, in risposta alle critiche nei confronti della sua torre, ha alimentato un’’accesa polemica, con grande spazio sulle prime pagine dei quotidiani, ma lontano da una vera valutazione dei limiti del progetto. Peccato che su un intervento così rilevante per il futuro di Milano si apra solo adesso un confronto pubblico. Il problema non è nella dimensione di rottura di questo progetto. Ha ragione il direttore di Abitare, Stefano Boeri, intervistato sempre dal Corriere (7 aprile): “Il nuovo non deve essere sempre conciliante”, ma c’è modo e modo di esplorare la novità. Un progetto come la Velasca riusciva a farlo dialogando con il resto della città, mentre questa torre e più in generale il progetto CityLife rimangono lontano da “una nuova idea complessiva di Milano”.
Speriamo che in fase di realizzazione il talento di Libeskind sappia “riallineare” la torre e il vicino Museo di Arte Contemporanea alle sue opere più note.