di Nina Deutsch
Torino, la città che ogni anno si fa simbolo della cultura italiana e internazionale si è risvegliata scossa, tesa, ferita. Due episodi distinti ma simbolicamente intrecciati – uno al Salone del Libro, l’altro al Campus Luigi Einaudi – hanno mostrato il volto più drammatico di un conflitto globale che si riflette sempre più nei nostri spazi civili e accademici. Ieri, mercoledì 15 maggio, giorno in cui il popolo palestinese ricorda la Nakba, la “catastrofe” del 1948, a Torino è esplosa una tensione latente che da settimane attraversava ambienti universitari e culturali.
Una tensione alimentata anche dal clima che, dopo il 7 ottobre, ha infiammato i campus dei più prestigiosi atenei americani, e che ora sembra essere arrivato anche qui. Segno che un certo modo di percepire la realtà, fatto di polarizzazioni estreme, ha ormai oltrepassato i confini e si fa spazio anche nel cuore dell’Europa, diventando sempre più mainstream. A Torino ha preso forma tra cori, cariche, proteste e una violenza preoccupante; preoccupante non solo per la violenza fisica, ma per la normalizzazione dell’odio, che si infiltra nei luoghi di informazione e di cultura, che dovrebbero essere spazi di tolleranza e libertà.
Campus Einaudi: la conferenza annullata, la paura che resta
Nel pomeriggio di giovedì 15 maggio al Campus Luigi Einaudi, cuore pulsante dell’Università di Torino era in programma, per le 16, un evento dal titolo “Per le Università come luogo di democrazia e di contrasto all’antisemitismo”, promosso da alcune realtà studentesche, tra cui l’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI), Studenti per Israele, Studenti Liberali e Studenti per le Libertà.
La conferenza non è mai iniziata. Un gruppo di attivisti pro-Palestina, molti dei quali provenienti da collettivi universitari, ha fatto irruzione nell’aula designata all’incontro. Secondo il comunicato ufficiale dell’UGEI, i partecipanti sono stati insultati, minacciati, aggrediti fisicamente. Al presidente dell’Ugei Luca Spizzichino è stata strappata la spilla per la liberazione degli ostaggi da una manifestante. È stato anche sottratto un telefono cellulare, un gesto che dimostra la volontà non solo di intimidire, ma anche di cancellare le prove della violenza perpetrata. «Ci hanno sputato addosso, colpito, rubato i telefoni – racconta una studentessa tra gli organizzatori – È stato un attacco deliberato alla nostra libertà di parola. Avevamo paura».

Il rettorato e la direttrice del Campus, Anna Mastromarino, hanno deciso di annullare l’incontro «per garantire l’incolumità di tutti”, dichiarando però che «l’università resta uno spazio di confronto, non di intimidazione». Ma per chi c’era, il senso di sconfitta era già nell’aria.
Uno dei presenti, visibilmente scosso, ha raccontato: «Non si è trattato di una semplice contestazione. È stato un atto organizzato per zittirci. Abbiamo avuto paura di essere linciati solo per quello che rappresentavamo».
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COMUNICATO UFFICIALE UGEI:
VIOLENZA AL CAMPUS EINAUDI DI TORINO: IL DIRITTO ALLO STUDIO CALPESTATO, L’UNIVERSITÀ SCONFITTA
Torino, 15 maggio 2025 – Al Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino, si è consumato un attacco violento e premeditato alla libertà di espressione e ai valori fondamentali dell’università e della democrazia. L’evento “Per le Università Come Luogo di Democrazia e di Contrasto all’Antisemitismo”, promosso dalle associazioni firmatarie del Manifesto Nazionale per il Diritto allo Studio (Unione Giovani Ebrei d’Italia, Studenti per le Libertà, Studenti Liberali, Studenti per Israele) è stato brutalmente sabotato, al grido dell’Intifada, da un gruppo organizzato di attivisti Pro-Palestina, che ha fatto irruzione nell’aula universitaria dove l’incontro si sarebbe dovuto tenere, con la volontà di impedire agli studenti ebrei, e a coloro che li sostengono, di parlare con insulti, minacce, sputi e aggressioni fisiche. Alcuni promotori dell’iniziativa sono stati colpiti fisicamente, minacciati e denigrati. È stato anche sottratto un telefono cellulare, un gesto che dimostra la volontà non solo di intimidire, ma anche di cancellare le prove della violenza perpetrata.
Ogni tentativo di instaurare un dialogo è stato immediatamente soffocato da comportamenti violenti, che hanno trasformato uno spazio universitario fondato sulla libertà, in un luogo di intimidazione e repressione di diritti democratici, tramite la violenza perpetrata, che ha compromesso all’incolumità fisica degli studenti, dei relatori presenti, degli organizzatori e di coloro che volevano assistere pacificamente alla conferenza.
L’università non può e non deve diventare ostaggio della violenza esercitata da una minoranza incapace di confrontarsi in maniera democratica con idee diverse dalle proprie. Quando l’intimidazione prende il posto del confronto, si compromette la stessa essenza dello spazio accademico. Di fronte a simili episodi, il silenzio e l’indifferenza non sono neutralità: sono complicità.
Lingotto, Salone del Libro: lo scontro
Poco dopo un altro episodio di odio si è verificato all’interno del Padiglione Oval del Salone del Libro, mentre si teneva la presentazione del libro La cultura dell’odio, firmato dal nostro collaboratore Nathan Greppi, giornalista e saggista, classe 1994, attivo su testate nazionali e internazionali come Il Giornale, Il Foglio, Il Post, The Times of Israel e Tablet Magazine.
Un presidio pacifico – almeno inizialmente – si era radunato all’esterno del Lingotto, con bandiere, cartelli e slogan silenziosi: “In silenzio per la Palestina”, si leggeva su molti striscioni. Ma la tensione è salita rapidamente. Alcuni manifestanti hanno superato le transenne e cercato di forzare i cancelli d’ingresso. A quel punto, la polizia ha risposto con una carica di contenimento. I numerosi video diffusi da giornalisti e presenti mostrano attimi di caos: urla, spintonate, manganelli, mentre la folla cerca di farsi strada. Si sentono cori come «Fuori i sionisti dal Salone», gridati tra fumo e confusione.
All’interno, la presentazione si è svolta a porte chiuse e sotto scorta, mentre all’esterno il Salone perdeva, per un momento, il suo volto culturale e diventava il palcoscenico di una frattura sociale profonda. «Non vogliamo essere zittiti – ha dichiarato Nathan Greppi – ma non siamo qui per provocare. Difendere la memoria ebraica non è un atto d’odio».
Una città spaccata tra diritto alla protesta e diritto alla parola
I due episodi – pur diversi per dinamica e contesto – sollevano interrogativi profondi sullo spazio pubblico, la libertà di espressione e la gestione del dissenso. In entrambi i casi, l’obiettivo dichiarato era quello di “portare attenzione sulla Palestina”. Ma le modalità – tra scontri, intimidazioni e uso della forza – stanno accendendo un dibattito infuocato.
Da una parte, chi sostiene che la protesta sia l’unico strumento rimasto per dare voce a un popolo oppresso e per contrastare la “normalizzazione del sionismo”. Dall’altra, chi denuncia una deriva autoritaria nei metodi della contestazione, in cui il diritto alla parola e la sicurezza degli interlocutori vengono cancellati in nome di una causa.
«Non si combatte l’oppressione con altra oppressione», ha scritto in una nota il direttivo dell’UGEI. «I nostri studenti sono stati messi in pericolo per aver voluto parlare di democrazia».
E mentre il Salone del Libro prova a ritrovare la sua normalità tra eventi, presentazioni e visitatori disorientati, l’Università di Torino si interroga su quale direzione prendere: come garantire spazi sicuri per tutte le voci, senza cedere alla logica del muro contro muro?
Il giorno dopo, fuori dal Lingotto, alcuni volontari raccolgono i cartelloni caduti, mentre la sicurezza è stata rafforzata. «Siamo stanchi – dice una ragazza di una ONG culturale – ma non possiamo lasciare che l’odio vinca. La cultura non si fa con le urla».
Nel frattempo, il dibattito esplode anche sui social: c’è chi difende il diritto di protesta, chi condanna ogni forma di violenza, chi parla di strumentalizzazione, chi di censura. Le ferite sono aperte. E le domande restano.