I ragazzi di Piazza Bologna

Italia

Era sul finire di maggio, che tra una lezione e l’altra discutevamo in classe, i miei compagni ed io, degli avvenimenti in Medio Oriente. Era un maggio tiepido e dolce, quello del ’67, come a Roma ne capitano spesso, nulla che facesse presagire quello che poi tra le sabbie del Sinai si scatenò da lì a pochi giorni dopo e che cambiò radicalmente la mia vita e non solo la mia.
Era il 5 giugno. Con un po’ di quella arroganza e sicurezza tipica di un diciassettenne, ripetevo con determinazione ai miei compagni del quarto anno del Liceo scientifico “Plinio Seniore”, che Israele non avrebbe mai potuto perdere nessuna guerra, tanto meno quella, che i ruggiti di Nasser, e la sua tipica e più volte reiterata esibizione di muscoli, stava per scatenare.
Fu così che mi ritrovai, poche settimane dopo quei fatti, assieme a due miei amici, su di una nave della compagnia marittima israeliana ZIM, la Moledet, diretta a Haifa e con nostra destinazione finale un Kibbuz della Galilea, dove Johanan, che apparteneva ad una grande famiglia ebrea romana e mio caro amico, ci aveva preceduti poche settimane prima, deciso a fare di quel paese la sua futura e definitiva patria.

Noi invece, eravamo arrivati lì in Israele come volontari, assieme ad altre migliaia di giovani di tutto il mondo, per sostituire nei lavori dei campi i ragazzi dei Kibbuzim richiamati alle armi ed ancora in quel momento impegnati sui quattro fronti che la guerra aveva aperto. Sei di loro furono commemorati una sera dal nostro Kibbuz, sei ragazzi caduti sul fronte negli ultimi giorni di guerra. Il più giovane di loro aveva diciotto anni, pochi mesi più di me.

L’eco di tutto quello che avevamo letto sui quotidiani italiani, visto e sentito, attraverso le allora due reti Rai, dall’invasione del Sinai, al totale annientamento a terra dell’aviazione egiziana, dalla presa delle alture del Golan e dei luoghi Sacri, fino alla conquista di Gerusalemme, era diventato, una volta arrivati a destinazione, una meravigliosa e tangibile realtà in ogni suo aspetto. Chiunque si incontrasse e con chiunque si parlasse, infondeva in noi la sensazione che tutti stessimo vivendo un sogno, un sogno lungo duemila anni. Però non era affatto un sogno!!! Tutto era visibilmente reale, vero, tutto ammantato di forte e vivo entusiasmo e di una sensazione di profondo orgoglio che non potrò mai più dimenticare.
Gerusalemme era di nuovo nostra e le note di una nuova canzone scritta per quella occasione, si diffondevano ovunque in tutto il paese, liberate dalle radio sempre accese, tra un notiziario e l’altro. Jerushalaim shel Zahav. Gerusalemme D’Oro! Dai notiziari di guerra che ascoltavamo più volte al giorno, ci arrivavano invece le notizie dal fronte e la voce dello speeker concludeva sempre con questa frase: Hammatosenu hazrù beShalom. “I nostri aerei sono rientrati salvi ed in pace”. Queste parole rafforzavano ogni volta sempre di più il nostro entusiasmo e la nostra gioia di essere lì, testimoni di quei grandiosi avvenimenti della nostra storia.

Ogni tanto arrivavano anche notizie da casa. I miei, che nel frattempo, dalla fine di giugno, si erano trasferiti nella casa di Anzio per le vacanze estive, mi riferivano, che lì da loro erano arrivati da Tripoli gli zii e le zie e un gran numero di miei cugini, molti dei quali io non avevo ancora mai conosciuto.
Mi descrivevano la loro gioia di essersi riuniti ad una parte della famiglia dopo venti lunghi anni, la loro felicità di essere di nuovo lì insieme, in un’allegra confusione fatta di materassi buttati per terra, di un via vai festoso di bambini, di tavole sempre imbandite ed un costante tintinnare di stoviglie e tegami in cucina.

Il mio viaggio in Israele finì con la fine dell’estate e con l’arrivo delle festività ebraiche. I miei cugini con i loro genitori erano già ripartiti alla fine di agosto per Israele come olim, assieme ad un gran numero di altri ebrei libici.

Erano arrivati a Roma a varie ondate, a partire dal 15 giugno 1967, come un ennesimo Esodo biblico, in più di cinquemila da Tripoli e da Bengasi, cacciati come indesiderati da quella terra in cui ininterrottamente avevano vissuto per tremila anni e che avevano condiviso con cartaginesi, romani, turchi, arabi e che ora erano costretti ad abbandonare per sempre, liberi di portar via con se solo i loro ricordi, le loro nostalgie e le loro antiche tradizioni, solo quello insomma che si può trasportare chiuso nel proprio cuore. Obbligati però a lasciare lì le loro case, le loro Sinagoghe, le loro botteghe e i loro Morti, compresi quelli seppelliti da poco, assassinati in quei primi giorni di giugno dalla furia selvaggia del nazionalismo arabo.

Piazza Bologna è da sempre, e non chiedetemi perché, il punto d’incontro degli ebrei libici a Roma. Lo era anche molto prima del ’67. Già sul finire degli anni ’50 alcuni tripolini ormai considerati “stanziali”, avevano fatto della “Casina Fiorita”, un delizioso bar al centro della piazza, la loro postazione personale, dove incontrare, tra un caffè e una birra, tutti quei tripolini che passavano per Roma (mi perdonino i bengasini questa sineddoche non riduttiva, ma puramente semplificativa).

Da lì partivano e arrivavano pacchi da e per Tripoli, che amici e parenti si scambiavano utilizzando come corrieri chi aveva la fortuna di venire a Roma per i più disparati motivi. Parmigiano Reggiano, in cambio di taniche di Lagby dolce, Baci Perugina in cambio di uova di tonno, felfel rosso e kerwuia, in cambio di qualche bella camicia e così via.
C’era un altro bar in un lato della stessa piazza, il Caffè Santarelli, che era diventato nel frattempo il ritrovo, il meeting point, dei giovani tripolini appena arrivati ed è lì che in una calda serata di fine settembre del 1967 feci il mio primo incontro “ravvicinato” con i miei coetanei d’oltre mare.

Erano lì in parecchi, ragazzi e ragazze, ovviamente, queste ultime attiravano di più la mia attenzione, anche perché molte di loro erano veramente carine. Vestiti con jeans e minigonne, con t-shirts, camicie americane Arrow e Clark ai piedi, mi sembravano usciti dal film American Graffiti. Erano affettuosamente nuovi per me, diversi dai miei amici di allora, più disinvolti, più curiosi, come se questa nuova avventurosa esperienza romana li avesse resi invulnerabili. Poi capii. Erano meravigliosamente liberi!!

Parlottavano, scherzavano e ridevano tra loro e la mia curiosità di volerli avvicinare vinse la mia timidezza. Facendomi coraggio cominciai a conversare con alcuni di questi. Mi presentai spiegando che anch’io ero tripolino, mangiatore di Cus-Cus e Ahraimi, proprio come loro, nato però a Roma, da dove avevo imparato a capire e a conoscere la mia e la loro storia. Rispondevano alle mie richieste con quel loro parlare familiare, con quella “erremoscia” inconfondibile, subissandomi di “miii” e di “mizzica” e travolgendomi con valanghe di domande,che spaziavano tra Israele al tipo di ballo che era in voga qui da noi.
Fraternizzammo subito.

Gli anni sono passati, quaranta appunto e tra quei ragazzi di Piazza Bologna dai nomi buffi, Elvis, Fifi, Didi, Chicco, Kino, Sanino, Ginger… ho ritrovato le mie radici, la mia appartenenza, lo specchio di me stesso. Ho soprattutto trovato nuove amicizie, alcune delle quali si sono cementate in questi anni in una amalgama indistruttibile e che ancora oggi sostiene una parte della mia vita affettiva.

Grazie quindi ragazzi, per ciò che avete saputo dare in questi anni a me, ma sopratutto a questa Comunità ebraica, che fraternamente e generosamente vi ha accolti e che da voi ha avuto in regalo la vostra meravigliosa vitalità ed intelligenza. Grazie per aver saputo sapientemente, con pazienza e umiltà, ricostruirvi una vita dignitosa in questa città, che forse tra i tanti difetti, sicuramente non conosce l’inospitalità.