Ebrei e cristiani: una nuova Alleanza contro persecuzioni e violenze

Italia

di Fiona Diwan

CIMG5766Forse i tempi sono maturi. Forse o finalmente, chissà. Dopo più di un millennio di pietre d’inciampo è tempo di una pietra miliare, pietra di riconciliazione. Le sensazioni si alternano e sono contraddittorie. Incredulità, stupore, gioia. Almeno per chi, da ebreo, vede seduti fianco a fianco vescovi, parroci e monsignori insieme a rabbini e maestri del pensiero ebraico. «La mia è una dichiarazione d’amore verso la fede dei patriarchi di Israele che sono parte costitutiva del nostro essere cristiani. Non si può essere cristiani senza questa prossimità col popolo ebraico. Tutti siamo nati lì. La nostra è una relazione indistruttibile e necessaria. La Chiesa ha bisogno della fede di Israele e Gesù può essere compreso solo nella fede ebraica. È ora di ascoltare insieme la “voce di sottile silenzio” che è la voce del divino. Ecco perché l’unico modello percorribile oggi, tra ebrei e cristiani, è la complementarietà, alla luce del Berit Olam e dell’Alleanza con Dio», dice Monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti e membro della commissione episcopale per ecumenismo e dialogo. Parole queste, tra le tante, udite a Salerno il 24-25-26 novembre 2014 durante un meeting a dir poco epocale, organizzato dalla CEI, Conferenza Episcopale Italiana, sul dialogo interreligioso, dal titolo “Prospettive sul re-incontro tra ebrei e cristiani”, che ha visto interventi di grande spessore religioso, un confronto tra le due fedi come forse non era mai avvenuto, e relatori di una statura e densità di pensiero fuori dal comune. Davanti a una platea di più di 400 persone venute dalle diocesi di tutta Italia, la CEI e il mondo ebraico -confluito a Salerno da Israele, dall’Italia e dagli Stati Uniti-, sperano di far uscire la prospettiva del dialogo interreligioso dall’hortus-conclusus dei circoli elitari e dal confronto teologico intellettuale, per farlo scendere giù per li rami fino alle piccole chiese di campagna o alle città di provincia; e far capire così, chi sono gli ebrei e quali le convergenze e complementarietà dei due monoteismi chiamati oggi ad affrontare sfide globali sempre più difficili. Per smascherare il pregiudizio, cambiare lo sguardo cristiano sugli ebrei e neutralizzare duemila anni di antigiudaismo della Chiesa. Un tikkun, una riparazione a cui si dicono pronti i partecipanti di questo incontro.
Protagonisti per la parte ebraica rabbanim della caratura di rav Irving Izchak Greenberg, uno dei grandi pensatori americani di oggi; e poi rav Shlomo Riskin, rav David Rosen, rav Eugene Korn, rav David Sciunnach, i professori David Meghnagi e Mirna Chayo, Blu Greenberg e Vittorio Robiati Bendaud, quest’ultimo anima organizzativa insieme a Don Cristiano Bettega, dell’intera iniziativa. Grande assente, trattenuto per motivi di salute, rav Giuseppe Laras, nume tutelare e ispiratore dell’evento (insieme allo scomparso Cardinal Carlo Maria Martini, grande apostolo del dialogo interreligioso). Per la parte cristiana, hanno parlato invece il Cardinale Francesco Coccopalmerio, Monsignor Nunzio Galantino, Monsignor Mansueto Bianchi, Monsignor Luigi Nason, Frère Pierre Lenhardt, Monsignor Bruno Forte, Monsignor Gianantonio Borgonovo, il professor Daniele Garrone della Chiesa Valdese, Suor Mary Claire Boys.
«Era tempo per noi che si tornasse alla santa radice di Israele, radice come fonte di nutrimento e di vita. Per troppo tempo siamo stati lontani, indifferenti se non ostili. Parlo con un sentimento di commozione perché siamo qui non solo per l’urgenza del tema in questione ma perché da oggi “invocheremo il Nome dell’Eterno concordemente uniti”», dice aprendo i lavori del meeting Don Cristiano Bettega, direttore UNEDI (Ufficio Nazionale per il dialogo interreligioso), mente organizzativa dell’evento, che così porge un teologico assist a Monsignor Galantino, Segretario generale CEI, che sottolinea: «dire “concordemente uniti” è una sfida, un’attesa: perché per troppo tempo siamo vissuti, noi cristiani con gli ebrei, da separati in casa, con l’ombra del sospetto e dell’antisemitismo. Per dialogare ci vuole coraggio e disponibilità interiore, per questo dobbiamo mettere sul tavolo i nostri dubbi», spiega Monsignor Galantino.
«Quando ebrei e cristiani pregano e ascoltano, entrano in un dialogo più grande di loro, un dialogo tra l’albero e la sua radice, tra Abramo e le sue genti. Un dialogo che cerca nuove nitidezze, non più offuscate dalla “teologia della sostituzione”. Dopo le pagine rosse di sangue scritte nella storia di ieri, dopo le pagine rosse di vergogna della storia più recente, il mondo cristiano, nel dialogo con la fede ebraica, deve arricchirsi di percorsi comuni», sottolinea con voce vibrante Monsignor Mansueto Bianchi, Presidente Commissione Episcopale Ecumenismo e Dialogo.

Laras: Shoah e Israele
Gli fa eco Rav David Rosen dell’American Jewish Committee nonché membro permanente della Commissione bilaterale Santa Sede-Stato d’Israele, che parla di una vera rivoluzione in atto nei rapporti tra i due monoteismi. «Per secoli le relazioni tra ebrei e cristiani sono state tragiche, di totale rifiuto. Tutto inizia nel II° secolo dopo l’E.V., con Marcione, un personaggio negativo ma molto carismatico che sosteneva che la Bibbia ebraica fosse ormai superata; malgrado all’epoca la sua presa di posizione fosse stata tacciata di eresia, di fatto la Chiesa ha seguito Marcione per duemila anni. Ma oggi, grazie a papa Giovanni Paolo II e a figure come il Cardinal Carlo Maria Martini, Marcione è stato finalmente sconfitto (applausi, ndr). Lo ammetto, faccio fatica a crederlo, ma questa è una rivoluzione: Chiesa ed Ebraismo non sono più nemici ma soci».
È  la volta dlel’intervento di Rav Giuseppe Laras, letto dalla voce di Rav David Sciunnach (il testo integrale del discorso lo trovate sul sito Mosaico alla voce Idee). «Dialogare, mangiare insieme, innalzare la santità di Dio: fino a pochi decenni fa sarebbe stato impensabile. Questo è un evento non facile. Uno dei rischi del dialogo è la stasi o che il dialogo diventi qualcosa di elitario, un prodotto di nicchia diremmo oggi, un fenomeno gerontocratico che non tocca i giovani. Così non deve essere», scrive Rav Laras. «Ci sono due tematiche che coinvolgono fin nei recessi più profondi l’anima di un ebreo: la Shoah e Israele. Il dialogo tra noi e il mondo cristiano non può prescindere da un confronto serio su questi temi, dalla presa di coscienza della mostruosità della Shoah, rispetto a cui, per il modo cristiano, possono nascere imbarazzi e tensioni. Non possiamo dimenticare i troppi secoli insanguinati da violenze antiebraiche da parte cristiana, e un antisemitismo che soggiace sia alla Shoah che all’avversione verso la presenza di Israele. Fino al Concilio Vaticano Secondo, abbiamo visto i danni operati dalla famigerata “teologia della sostituzione” che ha sfigurato e massacrato Israel. È tempo di sanare queste ferite e di redimere il passato. Anche per i cristiani è tempo di riconnettersi con le proprie radici spirituali ebraiche. Ecco perché rianimare il dialogo è urgente e necessario, per scongiurare il Chillul HaShem e il fanatismo religioso di oggi, che altro non è che una pratica idolatrica da contrastare insieme. Ma anche il mondo cristiano, rinunciando all’antisemitismo, rinuncia a una tentazione idolatrica».
Un intervento denso e dirompente quello di Laras, a cui fa da controcanto quello di Don Luigi Nason, biblista e esperto del Dialogo ebraico-cristiano, anch’egli preoccupato di un eventuale arresto del dialogo interreligioso e del rischio di un “esilio della parola”, dice Nason, citando il filosofo Andrèe Neher. Don Nason rievoca la dichiarazione Nostra Aetate (28 ottobre 1965) e ricorda Papa Giovanni che fa togliere l’espressione perfidia giudaica dalla preghiera dell’Oremus. «La teologia cattolica ha delineato in 6 punti la trasformazione del pensiero cristiano verso l’ebraismo, oggi: il rifiuto dell’antisemitismo; il rigetto dell’accusa di deicidio; il pentimento per la Shoah; il riconoscimento dello Stato d’Israele; la rivisitazione-revisione dell’insegnamento dottrinale in relazione agli ebrei e all’ebraismo; il rifiuto di ogni proselitismo nei confronti degli ebrei. E, aggiungo io, è anche necessaria una nuova lettura delle Scritture ebraiche», spiega.

Nason: insieme si vince
«Basta con i passi estrapolati dal loro contesto, quello della Torà, alla base dell’antigiudaismo cristiano». L’analisi di Don Nason è spietata. E ribadisce che senza le Sacre Scritture non si può capire il Nuovo Testamento ma anche che «è inutile cercare Gesù di Nazareth nel Tanach -come invece hanno fatto duemila anni di metodo allegorico e ermeneutica cristiana-,  perché non c’è, cercarlo lì è stato una forzatura, un travisamento». Anche in fatto di Shoah, Nason non fa sconti e ricorda come il primo documento ufficiale della Chiesa in merito risale al 1998 («Vi rendete conto? Con che imperdonabile ritardo la Chiesa ha affrontato l’argomento!!»): senza dimenticare una qual certa implicazione e responsabilità, visto che i nazisti erano in definitiva credenti battezzati. Nason si sofferma anche sulla realtà di Israele e sul colpevole e ignorante atteggiamento dei pellegrini cristiani che, andandoci, si ostinano a chiamarla Terrasanta, pellegrini che non vogliono saperne nulla di un Gesù ebreo e del clima storico e politico dell’epoca in cui visse. Un lungo e clamoroso intervento questo di Nason, che lascia il segno, in cui viene citato lo Shemà Israel e l’importanza di “servire HaShem spalla a spalla”, ebrei e cristiani uniti.
Tonache e kippot, clergyman e maghen david, barbe e tonsure, il saio marrone dei francescani che si mescola ai cappelli a larghe tese dei rabbanim. Perfino le lacrime di commozione del Cardinal Francesco Coccopalmerio.
Visionari, utopisti, sognatori? A dirlo saranno gli sviluppi e ciò che accadrà dopo questo meeting.

Riskin: la scommessa
«Questo è un dialogo essenziale se vogliamo che il mondo libero sopravviva», esordisce Rav Schlomo Riskin, ortodosso, ordinato rabbino da Rav Solovetchik, presidente dei Colleges Or Torà Stone. «Sono qui con un senso di grande gravitas, serietà. Vengo da Israele: ci accusano di voler controllare la spianata delle moschee e Al Aqsa, a Gerusalemme. Ma le cose non stanno così: su quella spianata noi non possiamo mettere piede, è totalmente fuori controllo, e questo in barba al fatto che siamo stati proprio noi israeliani a consegnare le chiavi di quel luogo alle autorità arabe all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, perchè ci sembrava giusto che fossero loro a gestirla. Ma non così, non in questo modo, minaccioso per la nostra sicurezza. Questo incontro a Salerno è un grande passo sul cammino del tikkun. Abbiamo molte cose in comune con il mondo cristiano anche se la figura di Gesù ci divide e nel contempo ci unisce. Nella Torà, HaShem ci dice che vuole che noi ebrei diventiamo testimoni tra le nazioni del mondo (ad Avraham, Bereshit 21-3, «farò di te una grande nazione e attraverso di te saranno benedette tutte le nazioni del mondo”). Abramo simboleggia il chesed, compie atti di amore e giustizia e per questo Dio lo ama. Per tremila anni nessun filosofo è riuscito a costruire un testo morale così ampio e in continuo rinnovamento ermeneutico e esperienziale come la Torà. Poi qualcosa si è rotto, una frattura nel continuum storico. Arrivò l’imperatore Adriano e tutto cambiò: i suoi editti cacciarono dalla Storia il popolo ebraico, lo annientarono neutralizzando la sua possibilità di tramandare il lascito morale delle Dieci Diciture. Ci fu lasciata solo la sopravvivenza e non più la forza per diffondere il messaggio morale della Torà, come era stato fatto fino a quel momento, e come testimonia anche la stessa figura di Gesù, che storicamente era ebreo tra gli ebrei. Oggi, viviamo un periodo molto difficile – prosegue Rav Riskin -: si è verificato il miracolo di Israele, il dialogo con il mondo cristiano, un altro miracolo. Ma ora siamo vicini a una guerra nucleare-religiosa: una delle tre religioni monoteiste ha perso la bussola morale, siamo sull’orlo di un precipizio, sia con l’Iran che con l’Islam politico che ha dichiarato guerra agli infedeli e uccide chi non è musulmano. C’è un interpretazione Sufi dell’Islam che vuole un monoteismo etico. E’ nostro compito risvegliarlo dentro quel mondo».

Greenberg: l’alleanza
Considerato uno dei più grandi pensatori dell’ebraismo ortodosso di oggi,
alto due metri, allampanato e dall’aria soave, Rav Iz Greenberg punta il suo intervento su un grappolo di temi dalle importanti implicazioni interpretative. «Questa generazione ha una grande responsabilità. Dopo la tragedia della Shoah un re-incontro tra ebrei e cristiani diventa fondamentale, non è più possibile continuare a denigrarci a vicenda. Ebraismo e Cristianesimo sono religioni che cercano la redenzione attraverso un’Alleanza tra Dio e l’umanità. E il tramite, il mezzo, è il popolo di Israele. Quando il Signore limita se stesso, lo fa per noi. Dio ha concesso capacità divina all’umano e il potere della libera volontà. Dio recluta così l’umanità affinché lo aiuti a compiere l’opera. Parlo di una sorta di metodo redentivo dell’Alleanza: per non infliggere più il diluvio o altre ritorsioni divine, l’uomo deve riparare il mondo che Dio gli ha concesso. Una partnership che porta l’Altissimo e con lui l’uomo, a diventare soci nella Creazione. E che conduce all’infinito restringimento di Dio come gesto d’amore per l’Uomo, per fargli spazio. Certo, riconosco l’importanza del Cristianesimo come veicolo di diffusione morale e dei precetti contenuti nelle 10 diciture della Torà, e questo malgrado il male compiuto dal mondo cristiano contro gli ebrei e contro altri popoli. Nei nostri giorni, oggi, Dio ha scelto di nascondersi maggiormente, si verifica un nuovo tzim tzum divino, un ritrarsi, generato dall’onnipotenza dell’uomo che ci sta precipitando in un mondo totalmente fuori controllo. La persecuzione dei cristiani in Medioriente, le altre persecuzioni, lo stato di Israele come bersaglio costante, tutto questo ci parla di una onnipotenza dilagante. Ma intanto, nel frattempo, insieme possiamo riparare la nostra storia ferita, quella di ieri e di oggi, ed essere grati di essere qui, in questo tempo, adesso, in questa sala».
Storia, teologia, ermeneutica, riflessione spirituale, autocritica e autoanalisi. La parola ai valdesi, con il professor Daniele Garrone della Facoltà Valdese di Teologia. «Martin Lutero era un biblista e commentò tutta la Torà, padroneggiava perfettamente l’ebraico: cercava tra quei versetti un conforto alle sue tesi. Ma come si spiega il suo antisemitismo feroce? Lutero si confronta con chi, al suo tempo, sapeva l’ebraico come e meglio di lui, ovvero quegli ebrei dotti e sapienti i quali ovviamente non concordavano affatto con la sua lettura dei testi. E’ così che Lutero si infuria e dice che i rabbini sono superbi, distorcono le Scritture. Lutero non accetta un’ ermeneutica diversa dalla sua, non accetta il contraddittorio di chi legge la Torà in modo diverso dal suo. E così, dall’ira all’antisemitismo il passo è breve».

Borgonovo: i testi sacri
Parte da lontano anche Monsignor Gianantonio Borgonovo, Presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo, teologo e studioso. «Rifiutare la Bibbia ebraica da parte del teologo Marcione, nel II° secolo dell’E.V., fu un errore. Rifiutarla nel Medioevo fu un tragico destino. Rifiutarla oggi sarebbe un disastro, una paralisi religiosa, teologica», spiega Borgonovo raccontando, con un prodigioso excursus storico, i legami tra le Scritture viste dagli ebrei e dai cristiani. «Alla Bibbia in lingua originale, a poco a poco subentra la Bibbia dei Settanta non più in ebraico ma mi greco, come testo di riferimento ormai tradito da una traduzione che lo impoverisce e travisa. Nel mondo cristiano, la distanza dalla Torà in ebraico si fa vieppiù incolmabile. Sarà San Gerolamo ad accorgersi di questo fatale iato e del fatto che la traduzione greca non è affidabile; così Gerolamo cerca un ritorno all’originale ebraico, ne fa una necessità imprescindibile per ristabilire un confronto veritiero, ma riesce a farsi solo dei nemici che lo guardano con sospetto. Ecco perchè oggi, per noi, riabilitare una lettura corretta della Torà, ristabilire l’ebraica veritas, mettere a confronto le due letture scritturali è urgentissimo e non rimandabile», dice Borgonovo.

Meghnagi: le criticità
Per David Meghnagi, docente all’Università Roma Tre e Direttore del Master di didattica della Shoah, la domanda è «quali sono le problematicità del nostro cammino comune? Innanzitutto il mondo cristiano deve  fare i conti con le tensioni e gli imbarazzi generati dalla mostruosità della Shoah, a sua volta generata da secoli di violenza e demonizzazione degli ebrei. Inoltre, dopo duemila anni di esilio, il ritorno di Israele nella terra dei Padri è ancora problematica per chi ha predicato l’erranza di Israele come punizione. Israele va accettato nella sua realtà politico-statuale una volta per tutte, viceversa resterà uno scoglio al dialogo. Perchè il riconoscimento dello stato di Israele da parte del Vaticano, dopo la Guerra del Golfo è avvenuto  così tardi? Perché la realtà di Israele resta un nodo irrisolto? Esiste una schizofrenia da curare: il mondo cristiano va alla Giornata della memoria e poi quando nomina Israele continua a chiamarla Terrasanta. Perché?».
Pieno di verve è l’intervento di Rav David Rosen dell’American Jewish Committee, rabbino modern-orthodox e personaggio chiave nel raccordo tra mondo cristiano e realtà israeliana, nonché membro permanente della commissione bilaterale Santa Sede-Stato di Israele. Rosen esordisce con una descrizione delle comunità ebraiche italiane che lui ritiene dominate da un forte tradizionalismo e caratterizzate da un ambivalente atteggiamento verso il dialogo, di disprezzo da una parte e di favore sul versante opposto. Rosen fa un excursus dei rapporti tra le due fedi nella storia fino ad arrivare a quella che lui chiama la “bancarotta morale del mondo cristiano”, dopo la Shoah.

Rosen e Korn: il coraggio
Citando Rav Berkovitz, Rav Rosen invita il mondo cristiano a ripudiare l’antisemitismo e a ripulirsi da questa infamia: senza questo primo passo nulla sarà possibile, dice. Ma perchè, si chiede Rosen, il dialogo è visto così negativamente da taluni milieu ebraici italiani? Perché spaventa, risponde Rosen, e perchè rimanda a una temuta perdita della propria identità. E infine, perchè agita il fantasma dell’assimilazione. Non a caso, sottolinea, oggi molti giovani rabbini ortodossi sono di gran lunga meno aperti di quelli della generazione precedente. Senza contare che per noi ebrei, essere stati considerati un monoteismo incompleto e monco, per secoli, è ancora qualcosa di offensivo e indigesto. Senza contare  che il riconoscimento così tardo di Israele, da parte del Vaticano, ha gettato una luce dubbiosa sulla sincerità e sul valore del dialogo. Il dialogo e l’incontro coi cristiani erano considerati dagli ebrei qualcosa di così poco credibile e di così stravagante che fino alla visita di Papa Wojtila in Israele non esisteva nemmeno un ufficio preposto al dialogo presso il Rabbinato di Israele. Fu quella visita a svegliare tutti, ponendo il problema, per la prima volta, di interagire col mondo cristiano al livello più alto. Ed è proprio da lì che oggi dobbiamo ripartire», conclude Rosen.
«E’ giunto forse il momento di ripensare il cristianesimo e la teologia cristiana in fatto di ebrei e ebraismo. A partire da Nostra Aetate. Forse davvero possiamo non essere più nemici e porre fine alla guerra ontologica che nella Torà oppose Yaakov e Esaù, simbolicamente ebrei e cristiani», spiega Rav Eugene Korn, professore del Center of Jewish-Christian Understanding and Cooperation, autore di un importante libro, Ripensare il cristianesimo (EDB editore). «L’immagine corretta invece è quella di Giuseppe che si riconcilia con i suoi fratelli. Con Nostra Aetate finisce la fissazione cristiana per il proselitismo, finisce la guerra teologica e fisica che postulava che gli ebrei erano stati ciechi davanti a Gesù, e che erano perciò portatori della maledizione di Caino in quanto deicidi e che proprio per questo avevano perso la loro patria ed erano condannati ad errare. Nostra Aetate (1965) ha davvero cambiato tutto, è stata una rivoluzione, la fine di un incubo durato duemila anni. Ma anche noi ebrei dobbiamo liberarci dalle nostre paure e dai pregiudizi verso i cristiani. Le nostre ferite sono ancora profonde e il cambiamento psicologico lungo e difficile. Ma i nostri leader religiosi devono fare la loro parte e capire che i cristiani possono davvero diventare partner. Non solo a livello politico ma anche teologico, partner nell’Alleanza. Che cosa ci unisce? Le sette leggi Noachiche, le Dieci diciture e il patto del Sinai. Un’identità morale, insomma. Per il giudaismo classico invece, è l’idea della Trinità, della violazione dell’unicità di Dio, il Dio incarnato, ciò che è inaccettabile. Ma è il nostro punto di vista che va cambiato. Il cristianesimo ha contribuito a diffondere la legge morale di Mosè; anche Rav Shimshon Refael Hirsh, nell’Ottocento, arrivò alla stessa conclusione: ovvero che i cristiani proseguono e amplificano la parola della Torà, estendendo il Patto. E’ possibile includere i cristiani nel Patto tra Dio e Mosè? No, non è possibile, per via dell’uso delle immagini sacre e per il fatto che non osservano lo shabbat. Tuttavia la figura di Abramo ci unisce. Occorre anche una comprensione teologica del ritorno alla terra di Sion: c’è una promessa di Dio ai Patriarchi, in merito. Il mondo cristiano deve accettarlo anche se la cosa crea dei problemi politici, deve accettare la legittimità di Israele a risiedere in quell’angolo di mondo. Senza contare che oggi Israele è l’unico luogo in Medioriente, in cui i cristiani possono essere liberi, vivere e stare in pace», conclude Korn.

Boys: curare le ferite
«Per Papa Francesco, la Chiesa è come un ospedale da campo, deve curare le ferite. Ecco perchè ci sono tre buone ragioni per camminare nel dialogo. La prima è per rispondere a un imperativo etico e curare le ferite inflitte al popolo ebraico nella sua lunga storia. Il secondo è approfondire la riflessione teologica proposta da Nostra Aetate. Terzo, compiere una mitzvà, ovvero tenere viva una speranza in un modo dilaniato da confltiti spaventosi». Così parla, in modo appassionato, Suor Mary Claire Boys, un’autentica autorità del prestigioso Union Theological Seminary. Suor Mary si sofferma sulla «gran quantità di inchiostro teologico versato per capire le Lettere ai Romani di San Paolo. Paolo non sperimentò un conversione bensì una chiamata: parlava di virgulti innestati sullo stesso albero d’ulivo, voleva convertire i gentili e innestarli sulla radice ebraica. Se la Bibbia è il libro della Chiesa, la Chiesa ha il dovere di far conoscere l’Antico Testamento ai suoi fedeli, non solo in una lettura ebraica ma proprio in un’ottica di comprensione di ciò che sono gli ebrei. Solo la conoscenza accorcia e annulla le distanze. Il mondo cristiano deve finalmente uscire da una forma di trionfalismo, da un senso di superiorità ormai inaccettabili, un peccato di superbia che ha portato solo male. Oggi i nostri testi vanno riletti e scandagliati alla luce della storia. I fondamentalismi radicali sono un pericolo per tutti. Non possiamo esimerci da questa strada, l’unica da percorrere. Come dice il Talmud,“non compete a te completare l’opera ma non sarai libero di esimertene”».

(La versione integrale della cronaca di Salerno è sul sito www.Mosaico-cem.it. In tre puntate, 26-28-30 novembre 2014)