Convegno CNF: Francesca Albanese definisce l’ANP la “longa manus dell’occupazione israeliana”

Italia

Davide Cucciati

Il 4 settembre 2025, il Consiglio Nazionale Forense, Commissione Diritti umani e protezione internazionale, e la Scuola Superiore dell’Avvocatura hanno organizzato un incontro formativo titolato “Le violazioni dei diritti umani a Gaza e nei Territori occupati”.

Tra gli invitati, c’era anche Francesca Albanese, Relatrice speciale Onu per i Territori palestinesi occupati dal 1967. Il presidente del CNF, avv. Francesco Greco, ha aperto il convegno con un saluto agli oltre mille partecipanti, sia in presenza (a Roma) sia collegati da remoto. Quest’ultimo ha poi precisato che, già alla pubblicazione del programma, sono emerse polemiche da parte di chi chiedeva di poter esprimere una visione diversa. Conseguentemente, il CNF ha deciso di integrare il panel con relatori in grado di rappresentare punti di vista differenti quali l’Avv.  Il direttore de Il Dubbio, Davide Varì, ha moderato l’incontro e introdotto i lavori ricordando che proprio il CNF ha scelto di rimuovere la valenza formativa dell’iniziativa a seguito delle polemiche.

L’avv. Riccardo Arnau, consigliere del CNF e presidente dell’Osservatorio Internazionale degli Avvocati in Pericolo (OIAD), ha ribadito l’importanza del ruolo dell’avvocatura nella difesa dei diritti fondamentali e nella promozione del dialogo democratico. Inoltre, per rimarcare il ruolo dell’avvocatura contro coloro che vogliono impadronirsi del potere con la forza, ha citato Enrico VI di Shakespeare: “The first thing we do, let’s kill all the lawyers”. Commentando il rapporto, presentato il 16 giugno da Francesca Albanese all’ONU, Arnau ha osservato come il conflitto israelo-palestinese sia oggi segnato da “cicli di violenza e vendetta”. Ha poi descritto un processo di pace ridotto a “rituale diplomatico autoreferenziale” che rischia di essere inefficace, soprattutto se lo si riduce a una questione di sicurezza, anziché di giustizia: “La pace non è solo assenza di guerra ma presenza di alternative creative e credibili alla violenza”.

Francesca Albanese ha esordito esprimendo rammarico per la decisione del CNF di non riconoscere crediti formativi all’incontro. Ha ricordato il proprio ruolo istituzionale: esperta indipendente eletta dal Consiglio per i diritti umani dell’ONU. Il mandato, ha evidenziato  Albanese, riguarda esclusivamente le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, considerata come potenza occupante a Gaza, Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Secondo la Relatrice ONU, la questione palestinese risale a prima del 1967: più precisamente, sarebbe iniziata nel 1948 con 750.000 sfollati palestinesi. Poi l’“occupazione” del 1967 che avrebbe prodotto altri 300.000 profughi. Il popolo palestinese avrebbe così subito una frammentazione territoriale progressiva e irreversibile. La Cisgiordania, ha precisato Albanese, è smembrata; ogni colonia o insediamento civile costituirebbe un crimine di guerra, ai sensi della Convenzione dell’Aja, così come le confische. Le zone a accesso limitato e l’assenza di libertà di movimento avrebbero aggravato la situazione. La critica si è spinta fino agli Accordi di Oslo “che sono presentati da molti come un processo di pace ma non hanno fatto altro che consolidare, cristallizzare il controllo israeliano nella aree della Cisgiordania”. Anche Gerusalemme Est sarebbe stata annessa illegalmente e con la forza. Ogni riferimento alle dinamiche della “guerra dei sei giorni” è stato totalmente omesso dall’intervento della Relatrice ONU. Inoltre, Albanese ha definito il sistema vigente di apartheid, fondato su una doppia legislazione: i coloni israeliani sono sottoposti al diritto ordinario mentre i palestinesi, inclusi i minori, sono sottoposto a legge marziale. La discriminazione razziale, secondo Albanese, è sistemica.

Ha criticato anche l’Autorità Nazionale Palestinese che, a suo avviso, è la “longa manus dell’occupazione israeliana”. Inoltre, Gaza sarebbe “un grande ghetto dal 1948”. Il 70% della popolazione non sarebbe originaria della Striscia ma vi sarebbe giunta come rifugiata. Anche dopo il ritiro unilaterale israeliano del 2005, secondo Albanese,  Gaza sarebbe rimasta sotto occupazione dal punto di vista del diritto internazionale, poiché Israele ha mantenuto il controllo su confini, beni e risorse, fino a determinare persino l’apporto calorico minimo necessario ai Gazawi. La dipendenza forzata è stata trasformata in uno strumento di controllo. La Relatrice ONU ha poi menzionato la “resistenza armata”, facendo riferimento implicitamente ad Hamas, condannandone i crimini, e sottolineato che comunque, al momento, non si sia di fronte a due eserciti che si confrontano, ma semplicemente a un popolo che rivendica il diritto all’autodeterminazione.

Secondo la relatrice ONU, Hamas è nata nel 1987 “in seno all’occupazione israeliana”, sviluppandosi come movimento politico e poi militare. Albanese ha precisato che “tutti i governi israeliani degli ultimi vent’anni hanno visto in Hamas un valore aggiunto” utile a Israele per “mantenere la chiusura su Gaza”. Non vi è stato alcun riferimento alla popolarità crescente di Hamas anche in Cisgiordania dove non governa. Riguardo la strage del 7 ottobre, Albanese ha definito l’attacco come brutale: 1200 morti, tra cui 800 civili e 40 bambini, e 252 “ostaggi”. Gli attacchi di Hamas sono stati descritti dalla Relatrice ONU come “crimini di guerra e probabilmente contro l’umanità”. Successivamente, ha criticato duramente la reazione israeliana, definendola sproporzionata e devastante, con oltre 60.000 morti palestinesi, tra cui almeno 20.000 bambini, la distruzione quasi totale delle infrastrutture che avrebbero trasformato Gaza in un “campo di sterminio”. Secondo la relatrice dell’ONU, non si tratta di una guerra ma di un genocidio, che rientra in una logica coloniale. Israele mira a impossessarsi di tutta la terra residua, puntando alla cosiddetta “Grande Israele” affamando deliberatamente la popolazione. Albanese non ha precisato nulla riguardo la quantità di cibo entrata e non distribuita. Dal punto di vista giuridico, ha ricordato che l’occupazione è illegale, come stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia sia nel 2004 sia, in modo più esteso, nel 2024. Quale sarebbe una soluzione per la pace? Non un accordo tra le parti ma bensì il ritiro unilaterale e incondizionato di Israele da Gerusalemme est, dalla Cisgiordania e l’apertura totale di Gaza, lo smantellamento delle colonie e la corresponsione di risarcimenti ai palestinesi. Oggi, ha aggiunto, siamo di fronte a un genocidio in una logica di “conquista coloniale”. Inoltre, la Corte Internazionale di Giustizia, nel gennaio 2024, ha riconosciuto un rischio concreto di genocidio nella Striscia di Gaza, su istanza del Sudafrica, e ha indicato misure da adottare. Relativamente all’accertamento del genocidio, “non bisogna aspettare che sia un tribunale a dichiararlo” essendo sufficienti “commissioni nazionali”. Secondo Albanese, il parere della Corte impone anche agli Stati terzi l’obbligo di prevenzione, tra cui l’interruzione di forniture militari, di intelligence e delle relazioni commerciali. Ha citato in questo senso Leonardo S.p.A.. Richiamando l’articolo 16 della “legge sulla responsabilità degli Stati”, Albanese ha affermato che chi aiuta uno Stato a commettere gravi violazioni si rende corresponsabile.

 

Il dissenso dello storico David Elber rispetto alle dichiarazioni di Albanese

David Elber, ricercatore storico, ha espresso un netto dissenso rispetto all’impostazione del rapporto ONU presentato da Francesca Albanese. Ha ringraziato l’avvocato Greco, il Consiglio Nazionale Forense e tutti i presenti, sottolineando di intervenire in qualità di storico e non come rappresentante politico o diplomatico. Ha criticato il fatto che Israele, fin dalla sua nascita, venga descritto nel report delle Nazioni Unite come un’“impresa coloniale capitalista”, insinuando che sia uno Stato criminale e razzista fin dalla sua origine. Ha rifiutato con decisione questa lettura, rivendicando che Israele ha pieno diritto alla sua esistenza come espressione dell’autodeterminazione del popolo ebraico, e che non ha mai rubato terre o risorse altrui.

Elber ha ricostruito il quadro giuridico internazionale che ha portato alla nascita di Israele, citando in primo luogo l’articolo 22 dello Statuto della Società delle Nazioni. Ha ricordato che i mandati internazionali non erano colonie ma bensì strumenti giuridici riconosciuti dalla comunità internazionale per accompagnare i popoli verso l’autodeterminazione. Il Mandato per la Palestina fu assegnato alla Gran Bretagna come potenza amministratrice, in attuazione della Dichiarazione Balfour del 1917, riconosciuta dalla Conferenza di Sanremo nel 1920, confermata dal Trattato di Sèvres nel 1922 e successivamente ratificata nel Trattato di Losanna. Ha evidenziato che anche la Carta delle Nazioni Unite, all’articolo 80, richiama la continuità giuridica dei mandati. Il Mandato per la Palestina, ha detto, non fu un unicum: esistevano venti mandati internazionali.

Nel solo Medio Oriente si ricordano anche il Mandato per la Mesopotamia, da cui nacque il Regno dell’Iraq, e quello per la Siria, affidato alla Francia, da cui nacquero Siria e Libano. Tutti questi Stati sorsero secondo il principio dell’autodeterminazione. Israele nacque nel 1948 a partire dal Mandato sulla Palestina; la Giordania nel 1946 a partire dalla Transgiordania, separata amministrativamente dal mandato e assegnata alla famiglia Hashemita. Rispetto all’accusa di colonialismo, Elber ha fornito una ricostruzione storica dei dati demografici della regione. All’inizio dell’Ottocento erano presenti circa 250.000 arabi. Alla fine del secolo, 400.000. Nel 1914 gli arabi erano circa 550.000. Durante il Mandato britannico, e parallelamente all’aumento dell’immigrazione ebraica, la popolazione araba è cresciuta: nel 1931 vi erano 700.000 arabi, nel 1947 erano saliti a 1.300.000. Oggi vivono in Israele circa 2 milioni di cittadini arabi, e altri 5 milioni vivono tra la Cisgiordania e Gaza, portando il totale a circa 7 milioni, rispetto ai 250.000 di due secoli fa. Per Elber, questi dati rendono difficile parlare di genocidio o pulizia etnica.

Ha anche citato il caso di Gerusalemme, dove nel 1967 vivevano 55.000 arabi, mentre oggi sono circa 320.000, la cifra più alta mai registrata nella storia della città. Ha sottolineato che la presenza ebraica non ha mai causato un decremento di quella araba, ma al contrario ha coinciso con una crescita generale della popolazione.

Elber ha poi ripercorso i principali tentativi di accordo e di pace. Nel 1919 vi fu un’intesa tra Chaim Weizmann e l’emiro Faisal, che però fu successivamente ritirata da quest’ultimo. Nel 1937 una proposta britannica di spartizione fu rifiutata dalla parte araba. Nel 1947 la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite fu accettata dagli ebrei ma rigettata dagli arabi. Dopo la guerra del 1967, Israele chiese pace ma ricevette i cosiddetti “tre no di Khartoum”: no alla pace, no al riconoscimento, no ai negoziati. Sono seguiti però due trattati di pace, con Egitto e Giordania, oltre agli Accordi di Oslo con l’OLP. Elber ha ricordato infine le proposte israeliane di ritiro dalla Cisgiordania: quella del 2000, avanzata da Ehud Barak, e quella del 2008, entrambe respinte dalla leadership palestinese. Ha concluso sottolineando che l’analisi del conflitto non può prescindere dalla cornice giuridica internazionale e dalla sequenza storica dei fatti. Secondo Elber, parlare oggi di Israele come entità coloniale significa ignorare volutamente il diritto e la storia.

Barbara Spinelli, componente della Commissione Diritti Umani e Protezione Internazionale del CNF e copresidente dell’European Association of Lawyers for Democracy and World Human Rights, ha aperto il proprio intervento ricordando di essere stata bandita dalla Turchia a causa del suo ruolo di osservatrice internazionale. Ha sottolineato con fermezza come l’avvocatura debba intervenire ogniqualvolta gli attori, spesso Stati, violino le regole del diritto internazionale. Ha poi messo in evidenza la “Sproporzione delle vittime civili nella Striscia di Gaza”, osservando “È stato chiarito dalla Corte Internazionale di Giustizia che l’occupazione israeliana è illegittima in accordo con numerose risoluzioni ONU”. Secondo Spinelli, oggi esiste un clima diffuso di timore nell’esprimere critiche verso Israele, perché si teme di essere accusati di antisemitismo. Ha definito questo atteggiamento un paradosso, richiamando il fatto che il diritto internazionale postbellico furono due avvocati di origine ebraica. Successivamente, ha citato in particolare le parole del patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, secondo cui l’antisemitismo deve essere condannato con forza, ma non può essere confuso con la critica politica nei confronti del governo israeliano. Inoltre, ha aggiunto, senza citare alcuna fonte o dato, che la maggior parte degli ebrei nel mondo avrebbe espresso critiche verso le politiche israeliane. Ha poi citato nientemeno che Yasser Arafat il quale avrebbe affermato che il mancato riconoscimento delle ingiustizie tiene acceso il fuoco. La giurista ha quindi affrontato il tema degli strumenti legali già attivati da avvocati e organizzazioni internazionali. Sono state presentate denunce formali alla Corte Penale Internazionale per accertare le responsabilità del governo italiano e delle industrie produttrici di armamenti. In Cile, oltre 650 avvocati hanno sottoscritto una denuncia rivolta alla stessa Corte. Altre denunce sono state depositate: in Portogallo, dove il 14 luglio è stato segnalato un cecchino israeliano; in Belgio, dove un soldato israeliano in vacanza è stato interrogato e imputato, prima che il pubblico ministero trasmettesse il fascicolo alla Corte Penale Internazionale per incompetenza territoriale; in Germania; in Canada, dove è stato sospeso una parte dell’export di armi verso Israele anche grazie al lavoro svolto da Francesca Albanese. Ma non solo: Spinelli ha ricordato che il Giappone ha recentemente posto fine a una partnership industriale con l’azienda israeliana Elbit, mentre la Slovenia è diventata il primo paese europeo ad adottare un embargo totale sull’importazione di armi da Israele a partire da agosto 2025.

Ha citato anche le cause promosse contro multinazionali della tecnologia, tra cui Microsoft, per la loro complicità indiretta. Spinelli ha poi menzionato una sentenza della magistratura francese che ha riconosciuto lo status legale di protezione a cittadini palestinesi provenienti da Gaza, pur senza entrare nei dettagli del provvedimento. Ha evidenziato che anche all’interno di Israele vi sono settori critici, inclusi giuristi e organizzazioni dell’Ordine degli Avvocati, che hanno espresso dissenso verso le politiche governative. Ha citato il caso dello sciopero in Israele, sostenuto anche da importanti giuristi senza palesare ciò che i lettori di Mosaico probabilmente già sanno: lo sciopero era finalizzato alla richiesta di un accordo per liberare gli ostaggi. Al suo interno vi erano sensibilità eterogenee ma, certamente, non era preminente la visione espressa da Spinelli la quale ha probabilmente frainteso le richieste degli israeliani che si oppongono al governo attualmente in carica nello Stato ebraico. Ha denunciato inoltre la detenzione di venticinque avvocati palestinesi e l’impossibilità, per molti professionisti legali di Gaza, di esercitare la propria professione a causa del contesto di guerra e occupazione. Nel concludere il suo intervento, l’Avv. Spinelli ha richiamato il ruolo dell’avvocatura come presidio costituzionale e sociale in difesa dello stato di diritto. Ha invitato il Consiglio Nazionale Forense a mobilitarsi attivamente in sostegno dei colleghi che si trovano a operare in contesti estremi come quello di Gaza e ha sottolineato che l’impegno per i diritti umani non può essere selettivo né condizionato da equilibri politici, ma deve basarsi sull’universalità del diritto e sulla coerenza delle istituzioni.

L’avvocato Luigi Florio, cassazionista, ha esordito ricordando che tutte le occupazioni israeliane sono avvenute a seguito di guerre promosse dai Paesi arabi. Nei casi in cui si sono raggiunti accordi di pace, come con l’Egitto e la Giordania, i territori sono stati restituiti e non vi è più stato conflitto. Ha sottolineato che la situazione con i palestinesi è diversa, più complessa e irrisolta. Florio ha dichiarato di aver letto integralmente la relazione di Francesca Albanese e di aver trovato in essa una contraddizione di fondo: sebbene l’autrice affermi a voce che Israele viola il diritto internazionale, nella relazione scritta non viene esplicitamente attribuita tale responsabilità in modo giuridicamente chiaro. Secondo lui, il documento è sbilanciato e contiene una parte minima di raccomandazioni: su oltre 70 pagine, solo otto righe. Ha criticato l’enfasi sulle sanzioni e sull’embargo a Israele, definendole misure che eludono il problema principale: Hamas è un’organizzazione ricchissima, mentre la popolazione è poverissima e afflitta dalla guerra. Successivamente, ha definito la relazione “decontestualizzata” e ha osservato che anche in caso di ritiro immediato di Israele da Gaza e dalla Cisgiordania, i problemi dei diritti umani nei territori palestinesi continuerebbero a sussistere. Non esiste, secondo Florio, uno stato di diritto né a Gaza né in Cisgiordania. Da vent’anni non si tengono elezioni né sotto l’Autorità Nazionale Palestinese né sotto Hamas. I diritti delle donne sono ai minimi storici. Hamas, ha aggiunto, ha ricevuto miliardi in finanziamenti ma non ha costruito bunker né strutture civili di difesa: ha investito solo in tunnel sotterranei a scopo bellico. La guerra, ha detto, è sempre una tragedia, ma va considerato anche l’utilizzo sistematico della popolazione civile come scudo umano. Poi, l’Avv. Florio ha ricordato una dichiarazione di Yahya Sinwar, secondo cui più morti ci sarebbero stati, maggiore sarebbe stato il sostegno alla causa palestinese. “In parte, è quello che stiamo vedendo”, ha aggiunto. Sono anche stati sollevati interrogativi su come si possa condurre una guerra quando scuole e ospedali sono utilizzati a fini militari; Florio ha inoltre evidenziato le gravi violazioni dei diritti umani da parte di Hamas nei confronti delle persone omosessuali. Ha posto una domanda retorica: se domani Israele cessasse di esistere, cosa ne sarebbe dei diritti umani nei territori palestinesi? A suo avviso, tutto rimarrebbe esattamente com’è oggi. Florio ha poi raccontato di essere stato messo in contatto, grazie all’Avv. Alessandra Casula di Lodi, con un avvocato di Gaza arrestato e torturato dalla polizia di Hamas. Quest’ultimo gli ha consegnato una lettera da recapitare a Francesca Albanese, in cui denuncia le violenze e gli abusi del regime di Hamas. Nella lettera si afferma che la popolazione di Gaza subisce una doppia ingiustizia: da un lato l’assedio israeliano, dall’altro il controllo violento e arbitrario di Hamas. “Gaza non è sinonimo di Hamas”, si legge nel testo. Florio ha annunciato che consegnerà la lettera sia alla relatrice speciale ONU che al presidente del CNF. Ha criticato la relazione della relatrice per aver sorvolato sul contesto storico e sul 7 ottobre, sostenendo che vi è differenza tra una morte civile causata da un bombardamento e casi come quello dei fratellini Bibas.

A suo avviso, la relazione assume fin dalle prime righe che Israele persegua una finalità genocida fin dalla sua nascita, e presenta ogni sua azione come funzionale a tale scopo. Ha ricordato che, a oggi, la Corte Penale Internazionale ha proposto un procedimento contro Netanyahu e Gallant, ma escludendo l’ipotesi di genocidio, probabilmente per l’assenza dell’elemento soggettivo del dolo. Florio ha osservato che la Corte Internazionale di Giustizia è un organo delle Nazioni Unite, quindi espressione anche di Stati autoritari, mentre la Corte Penale Internazionale è indipendente. Ha precisato che la Corte Internazionale di Giustizia non ha ancora emesso una sentenza sul genocidio, mentre la relazione della relatrice ne ha il tono ma non il valore giuridico. Ha infine criticato l’assenza di attenzione da parte dell’ONU su altri contesti: Iran e la polizia morale, Afghanistan, Russia, Cina, Hong Kong. Ha ricordato che era presente quando nel 1997 Hong Kong fu integrata nella Cina nonostante gli accordi internazionali prevedessero una transizione diversa. Ha citato anche le situazioni di Cipro, Crimea e Tibet come esempi di occupazioni non menzionate nel dibattito attuale. Ha richiamato l’episodio in cui, ai tempi di Yitzhak Rabin, l’ONU definì il sionismo come forma di razzismo, salvo poi ritrattare. Secondo Florio, la relazione Albanese ignora lo stato di guerra in corso e rischia di gettare benzina sul fuoco dell’antisemitismo, che sta crescendo a livelli mai visti dalla Shoah. Ha concluso richiamando la dichiarazione della Lega Araba, che ha invitato Hamas a liberare gli ostaggi, deporre le armi e lasciare la Striscia.

In chiusura del convegno, Francesca Albanese ha replicato ad alcune delle critiche emerse nel dibattito. Ha invitato i presenti a leggere gli studi dello storico israeliano Benny Morris per comprendere meglio il contesto storico e ha ribadito che Israele esiste e ha pieno diritto di esistere come Stato. Tuttavia, ha precisato che tale diritto non include l’occupazione dei territori palestinesi. Ha ricordato che il suo mandato di relatrice speciale riguarda esclusivamente i territori occupati nel 1967 e non mette in discussione la legittimità dello Stato di Israele in quanto tale. Rispondendo a una domanda sull’eventuale natura criminale o razzista di Israele, Albanese ha dichiarato che non rientra nelle sue competenze stabilirlo, pur riconoscendo che la questione possa essere oggetto di discussione in altri contesti. Ha chiarito che il rapporto presentato è il sesto da lei redatto, e che le stesse conclusioni erano già presenti nei documenti precedenti. Richiamando il giurista Raphael Lemkin, che coniò il termine “genocidio”, Albanese ha affermato che alcuni sogni politici possono condurre al genocidio, e che la segregazione razziale rappresenta uno dei suoi segnali precursori. Ha aggiunto che non ha definito Israele una colonia non perché lo ritenga falso, ma perché l’analisi del colonialismo esula dal suo mandato specifico. A proposito delle vittime civili a Gaza, Albanese ha parlato di una popolazione “decimata”, sottolineando che il problema non si riduce a una mera questione di numeri. Ha affermato che Israele, dopo aver inizialmente dichiarato l’obiettivo di distruggere Hamas, avrebbe in seguito equiparato l’intera popolazione di Gaza al movimento stesso, con conseguenze gravi sotto il profilo operativo e giuridico. Ha riferito che, secondo una dichiarazione delle stesse forze armate israeliane – citata senza fonte – , l’85% delle vittime a Gaza sarebbe composto da civili. (In realtà lo stesso Hamas dichiara che il 72 % delle vittime è composto da combattenti, NDR) Ha inoltre sostenuto che oltre il 60% dei detenuti palestinesi verrebbe sottoposto a trattamenti degradanti, citando denunce gravi, da verificare, secondo cui alcuni di essi avrebbero subito anche violenze sessuali estreme, che includerebbero persino abusi mediante animali. Infine, ha respinto l’accusa di trascurare le violazioni commesse da altri Paesi, ricordando che esistono altri relatori speciali dell’ONU incaricati di monitorare situazioni come quelle in Iran, Russia o Cina. Per quanto riguarda l’accusa rivolta a Hamas di utilizzare scudi umani, Albanese ha richiamato il lavoro di alcune commissioni d’inchiesta internazionali, che, a suo giudizio, ne avrebbero ridimensionato la portata o messo in discussione la validità.

In conclusione, il convegno ha palesato come esistano posizioni in seno all’ONU e all’avvocatura che considerano gli accordi di Oslo negativamente, l’ANP una longa manus “dell’occupazione israeliana”, Yasser Arafat una fonte da citare senza alcuna precisazione del suo ruolo storico a dir poco ambiguo, i soldati israeliani come incriminabili in nome della giustizia e la pressoché inutilità perfino delle proposte di pace avanzate da Israele nel 2000 e nel 2008 stante una sorta di dovere ritirarsi senza alcuna contropartita politica da Gerusalemme est, dalla Giudea e dalla Samaria. Viene da chiedersi a che Israele si stia pensando dato che perfino il liberaldemocratico e oppositore all’attuale governo Yair Lapid, nel 2016, ha affermato che: “Se fossi primo ministro, in tre settimane potrei raggiungere un accordo che prevede il congelamento delle costruzioni al di fuori dei blocchi in cambio della costruzione nei blocchi: Etzion Bloc, Ma’ale Adumim, Ariel”. Infine, merita attenzione anche la citazione dello storico israeliano Benny Morris: una figura complessa, la cui opera, se assunta come fonte, va considerata nel suo insieme e non frammentata in singole affermazioni estrapolate dal contesto storico e storiografico in cui sono state pronunciate.