Se il boicottaggio di Israele colpisce i palestinesi: il caso Sodastream

Israele

di Ilaria Myr

Arab-Israeli women greet a colleague (2ndR) being one of the last Palestinian employees of the Israeli SodaStream drinks firm leaving after they were laid off following a work permit battle on February 29, 2016 before they leave SodaStream's plant in the Israeli city of Rahat in the Negev desert. The company lashed out at the government for refusing to grant them work permits after it relocated from the West Bank to southern Israel. The company, which manufactures a device for making fizzy drinks at home, announced in late 2014 it was closing the West Bank plant following a boycott campaign that included targeting Hollywood actress Scarlett Johansson after she advertised its product. The plant, located in a Jewish settlement, closed in October last year, with more than 500 Palestinians made redundant, and then relocated inside Israel. / AFP / JACK GUEZ
Donne arabe-israeliane salutano l’ultima collega palestinese dello stabilimento SodaStream di Rahat, a cui il governo non ha rinnovato (come ad altri 73, il permesso di lavoro nell’azienda

Una settimana fa avevamo dato la notizia che circa 1200 giovani, ebrei beduini e arabi, hanno partecipato alla festa organizzata dall’azienda israeliana Sodastream contro ogni forma di razzismo e di intolleranza e contro il crescente terrorismo che colpisce vittime civili.

Ora, invece, solo sei giorni dopo, la fotografia di un’azienda in cui dominano convivenza e dialogo sembra sbiadire davanti al licenziamento degli ultimi 74 impiegati palestinesi dello stabilimento di Rahat, che hanno lasciato in lacrime i colleghi israeliani.

Una decisione, questa, dovuta al rifiuto del governo israeliano di prolungare il permesso di lavoro a queste persone e che, come emerge dai media israeliani, rientrerebbe nella volontà delle istituzioni di contenere la politica di immigrazione, dando maggiore lavoro agli israeliani. Il tutto, in un contesto reso ancora più difficile dalla crescente ondata di atti terroristici quotidiani, che vedono palestinesi della Cisgiordania protagonisti di attacchi contro ebrei israeliani.

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Daniel Birnbaum, ceo SodaStream

Il primo a essere furioso, però, è lo stesso ceo dell’azienda, Daniel Birnbaum, che aveva fortemente voluto creare una “isola di pace“, fatta di collaborazione e uguaglianza, nello stabilimento di Mishor Adumim in Cisgiordania, dove su 1300 lavoratori 500 erano palestinesi della zona, 350 ebrei israeliani e 450 arabi israeliani. E che ora promette di non rinunciare ai suoi lavoratori, cercando di aiutarli a creare la loro fabbrica.

Ma è difficile non considerare anche il forte impatto della feroce campagna di boicottaggio iniziata nel 2014 dal movimento BDS contro l’azienda. Dal 2014, infatti, SodaStream è diventata l’obiettivo di una feroce campagna, che ha portato l’azienda a chiudere la propria fabbrica in Cisgiordania e a trasferirsi nel sud del Paese, a Rahat (e che ha colpito anche la testimonial pubblicitaria Scarlett Johansson). Qui hanno potuto continuare a lavorare solo 74 professionisti palestinesi, a fianco di 400 beduini del Negev.

Al momento di rinnovare i permessi ai lavoratori palestinesi, dunque, sotto la pressione del boicottaggio da un lato e del terrorismo dall’altro, il governo ha posto il suo rifiuto.

Inevitabile chiedersi, come fa il Times of Israel, quali siano gli effetti benefici del boicottaggio sui lavoratori palestinesi in israele. Per dirla con il giornalista David Horovitz: “I sostenitori di BDS dicono di agire per l’interesse dei palestinesi, soprattutto per la loro indipendenza. Ma è improbabile che le centinaia di impiegati palestinesi rimasti a casa senza lavoro la pensino in questo modo”.