Israele: governo work in progress… Benny e Bibi, una poltrona per due?

Israele

di Aldo Baquis, da Tel Aviv

La grave crisi istituzionale. Le tensioni sociali e l’economia in bilico. L’incertezza  sui dossier di Netanyahu e sul suo futuro politico. Senza contare la diffidenza reciproca tra Gantz e l’ex premier… Governo delle mie brame, chi sarà il leader di questo reame?

Riusciranno i nostri eroi a formare il tanto sospirato, controverso, conflittuale governo? Una Knesset che regga ai difficili equilibri politici esito delle ultime elezioni? Dopo due tornate elettorali – il 9 aprile la prima, il 17 settembre la seconda – i partiti incespicano nel tentativo di costituire un esecutivo che goda della fiducia di oltre metà della Knesset e non escludono di doversi presentare a un terzo appuntamento elettorale all’inizio del 2020. La palla continua a passare da un campo all’altro, da Bibi a Benny. Una poltrona per due? Netanyahu ha gettato la spugna. Gantz è al lavoro e ha fino al 20 novembre per formare il governo. È la più grave crisi istituzionale dalla fondazione del Paese, che si sviluppa peraltro mentre si profila sempre più concreta la minaccia militare dell’Iran.

Non si tratta solo dei programmi nucleari di Teheran, di per sé già allarmanti alla luce di recenti dichiarazioni dei generali iraniani secondo cui la distruzione di Israele non è più solo una aspirazione del regime khomeinista, ma è adesso “un progetto fattibile”. Anche se i leader europei (Macron in testa) preferiscono di norma guardare altrove, la penetrazione militare dell’Iran nel Vicino Oriente prosegue vigorosamente – sotto la regia del generale Qassem Suleimani – in Libano, in Siria, nello Yemen, nella striscia di Gaza e in Iraq da dove le forze iraniane sono adesso in grado di lanciare verso Israele missili da crociera.
Questo è stato il preoccupante scenario regionale offerto all’inizio di ottobre da Benyamin Netanyahu nella giornata di solenne apertura della Knesset. Netanyahu era tornato col pensiero ad altri Paesi democratici del passato e aveva menzionato la Francia dei primi anni Trenta in cui si avvicendarono numerosi governi, mentre Hitler si affacciava sulla scena politica. La lezione da apprendere – aveva aggiunto – è che in momenti così delicati, una leadership responsabile dovrebbe operare per la coesione nazionale e per un governo unitario.

Oggi, a rendere più preoccupante ancora la situazione, è giunta l’apatia con cui l’amministrazione Trump ha seguito un duro attacco militare sferrato dall’Iran nei confronti di un importante giacimento petrolifero in Arabia Saudita. Poche settimane dopo Trump ha dato di fatto il via libera a una vasta operazione militare della Turchia a scapito dei curdi della Siria, che pure avevano coraggiosamente combattuto al fianco degli Usa contro lo Stato Islamico. Così, per la prima volta negli ultimi tre anni Netanyahu si era dissociato dal suo “grande amico” Trump: aveva condannato la “invasione turca” e ha promesso aiuti umanitari ai curdi. Un “accordo di difesa reciproca” fra Usa e Israele – menzionato da Netanyahu prima delle elezioni – è stato velocemente archiviato. “In ogni caso Israele è determinato a difendersi sempre da solo, contro qualsiasi minaccia”, ha precisato. Adesso appare evidente perfino a Netanyahu che sul capriccioso presidente degli Stati Uniti non bisogna contare eccessivamente.

Un governo di unità nazionale?
Sulla necessità di un governo di unità nazionale esiste peraltro un vasto consenso, a partire dal capo dello Stato Reuven Rivlin che, dopo le elezioni del 17 settembre, ha convocato Benny Gantz (leader del partito centrista Blu Bianco, che ha ottenuto 33 seggi sui 120 della Knesset) e Netanyahu, che alla guida del Likud ne ha avuti 32. Rivlin ha proposto loro un governo di alternanza alla carica di premier, con una spartizione paritetica dei ministeri fra Blu Bianco e il Likud.

Riferendosi implicitamente alla prospettiva che Netanyahu rischia di essere incriminato per i tre dossier in cui è sospettato di corruzione, frode e abuso di ufficio, il Presidente ha menzionato la possibilità di un emendamento della legge sull’“impedimento” del premier. Essa prevede oggi la sua sostituzione automatica per 100 giorni qualora per motivi di salute il premier non fosse in grado di operare. Quel lasso di tempo, secondo Rivlin, può essere esteso. Al termine del periodo di “impedimento”- anche di diversi mesi – il premier tornerebbe in carica. Tradotto in termini politici: se Netanyahu fosse incriminato, sarebbe sostituito nelle sue funzioni da Gantz, ma resterebbe formalmente primo ministro. Una volta chiusa la questione giudiziaria, riassumerebbe la carica di primo ministro. Ma tant’è. Adesso, che l’incarico è passato nelle mani di Gantz il problema è meno urgente, anche se le astuzie di Bibi continuano a non piacere a Blu e Bianco. Netanyahu aveva fatto sottoscrivere a due partiti confessionali e a una lista nazionalista un accordo in base al quale il Likud si sarebbe presentato “in blocco” assieme a loro a qualsiasi negoziato per la formazione di un governo. Gli emissari del Likud avevano così informato la controparte di Blu Bianco che rappresentavano adesso non più gli scarni 32 deputati, bensì un manipolo di 55 onorevoli, quasi mezza Knesset. In ebraico si chiama: “Hocus Pokus”, ossia “Abracadabra”. L’espediente non è affatto piaciuto agli uomini di Gantz, che pure è favorevole a un governo di unità nazionale col Likud. Ma il suo obiettivo è un esecutivo laico, centrista e snello. Netanyahu – col suo “patto di ferro” con quelli che chiama “gli alleati naturali del Likud” (parte dei quali insistono per la parziale annessione della Cisgiordania e lanciano proclami di carattere xenofobo) – vorrebbe spostare molto a destra l’asse politico di Israele. Malgrado dalle elezioni il centrista Blu Bianco sia emerso come il primo partito in ordine di grandezza e malgrado il 55 per cento degli elettori si sia espresso contro la leadership di Netanyahu.

Che Rivlin, Netanyahu e Gantz siano tutti favorevoli a un governo di unità nazionale non è dunque bastato a dare concretezza a quella formula. Da un lato, la difficoltà sia per Blu Bianco sia per il Likud di formare una coalizione ristretta che abbia almeno 61 deputati alla Knesset; dall’altro la sfiducia reciproca fra i due leader. Di fatto ora la palla è nel campo di Gantz. Vedremo.
Per l’intero 2019, il lavoro dei ministeri è stato molto ridotto. In economia si attendono decisioni drastiche, anche per l’approfondirsi del debito pubblico. Occorre prendere decisioni importanti. Anche la politica sociale mostra i suoi limiti. A luglio l’uccisione da parte di un ufficiale di polizia di un adolescente falashà ha innescato estese manifestazioni della comunità degli ebrei originari dell’Etiopia, che si sentono discriminati in Israele e penalizzati da un razzismo latente. In passato avevano votato in massa per il Likud, mentre a settembre lo hanno punito. Inoltre per il partito di Netanyahu si è rivelata controproducente la campagna di forte antagonismo nei confronti della minoranza araba: condotta fra l’altro con la richiesta insistente di dislocare telecamere nelle località arabe “per impedire brogli elettorali” e con un messaggio Twitter – poi ritirato – in cui si accusavano gli arabi di Israele di voler massacrare gli ebrei. Trovatisi con le spalle al muro, i partiti arabi hanno messo da parte i dissensi e la loro Lista unita, con 13 seggi, è il terzo partito alla Knesset in ordine di grandezza. Adesso vuole influenzare l’ordine del giorno nel Paese. Ad ottobre, ad esempio, la minoranza araba si è mobilitata per denunciare la “sistematica negligenza” che a suo parere caratterizza la polizia israeliana quando deve cimentarsi con il crimine nel settore arabo. Se lo Stato esiste – hanno detto i parlamentari arabi – che si manifesti, requisendo nelle località arabe le quantità di armi illegali che vi sono nascoste e debellando i clan malavitosi.
L’Iran. Lo stallo politico fra il Likud e Blu Bianco. L’incertezza sui dossier di Netanyahu e sul suo futuro politico. L’economia in bilico. Le tensioni sociali che non trovano un interlocutore valido. Il problema di Israele – ha scritto di recente con perspicacia un analista del New York Times – è che da un lato si tratta di un Paese di larghi orizzonti, con interessi globali da Grande Potenza, ma che dall’altro soffre per una leadership politica da piccola città, con acerrime inimicizie personali che ricordano un po’ gli shtetl, le piccola comunità ebraiche dell’Europa dell’est di oltre un secolo fa.