Israele col freno a mano tirato e le quattro emergenze simultanee

di Aldo Baquis, da Tel Aviv

Un momento difficile. Il sistema sanitario messo a dura prova. Politica e governo instabili. Una disoccupazione che cresce drammaticamente. L’economia del Paese che risente della crisi generata dal coronavirus. Infine, diritti civili e privacy a rischio, per contenere il contagio e garantire sicurezza. Israele, come l’Italia, reagisce alla grande. Ce la faremo? Sì

Dopo tre tornate elettorali in meno di un anno (aprile e settembre 2019, poi marzo 2020) la politica israeliana ha ancora il freno a mano tirato, e all’orizzonte già si profila l’incubo di un quarto appuntamento alle urne. Certo, quando la notte del 2 marzo le televisioni hanno pubblicato gli exit poll, era apparso che il pubblico avesse espresso un sostegno nitido: a favore di Benyamin Netanyahu (malgrado la sua pesante incriminazione per corruzione, frode e abuso di potere), a favore del Likud, a favore del blocco delle destre. Quella era stata una nottata di euforia per il premier e per la consorte, commossi nel palazzo della Fiera di Tel Aviv di fronte al travolgente abbraccio notturno dei loro sostenitori del Likud. Per il suo rivale centrista Benny Gantz, leader del partito Blu Bianco, era stata una nottata di contrizione e anche di autocritica.
Ma quando, giorni dopo, è terminato lo spoglio delle schede, è apparso in maniera incontrovertibile che il blocco delle destre si era fermato a 58 deputati su 120, e quindi non avrebbe potuto in alcun modo raggiungere la maggioranza di 61 seggi necessaria per presentare un governo. A meno che non fosse riuscito a convincere almeno tre deputati del centro-sinistra a passare dalla sua parte.
Rispetto al voto di settembre, il partito Blu Bianco aveva perso terreno, ottenendo questa volta solo 33 seggi: tre in meno del Likud di Netanyahu. Ma a suo beneficio giocavano adesso due fattori. Il passaggio dalla sua parte di Israel Beitenu, il partito della destra radicale di Avigdor Lieberman, definitivamente determinato adesso a defenestrare Netanyahu. Ad ogni costo. E più significativo ancora: il poderoso balzo in avanti dell’elettorato arabo di Israele, che nelle ultime settimane era stato sistematicamente bersagliato da messaggi di ostilità da parte del Likud di Netanyahu e che aveva preso nota, con allarme, che il cosiddetto Piano Trump per il Medioriente prevedeva – sia pure a livello di ipotesi – la inclusione di 300 mila arabi israeliani in un futuro Stato di Palestina.

Ecco così che, mentre alle elezioni dell’aprile 2019 due liste arabe avevano portato complessivamente alla Knesset 10 deputati, nel marzo 2020 il loro numero è balzato a 15, grazie alla partecipazione del 70 per cento dell’elettorato arabo (e grazie anche al sostegno di circa 20 mila votanti ebrei). Un record assoluto di deputati arabi negli ultimi 20 anni. I leader della Lista araba unita – Ayman Odeh e Ahmed Tibi – sono così entrati di diritto nel club della alta politica nazionale.
In attesa che la classe politica superi i contrasti, da oltre un anno il Paese è privo di un parlamento funzionante, con ripercussioni evidenti per il mercato e per diversi strati sociali (particolarmente gravi per quelli inferiori). Israele è guidato da un governo di transizione che non dispone della fiducia del parlamento. In queste condizioni non è stato dunque possibile votare la legge finanziaria per il 2020. Le attività di diversi ministeri vanno gradualmente arenandosi.
In questo stato di cose – che sarebbe comunque allarmante, anche senza tenere in considerazione le minacce alla sicurezza del Paese che incombono lungo i confini – Israele è stato attaccato dal coronavirus, e si è visto costretto ad adottare misure energiche. La politica ha intanto seguito il proprio corso e a metà del mese il Capo dello Stato Reuven Rivlin ha affidato a Gantz l’incarico di formare un nuovo governo. Dietro aveva il sostegno di 61 deputati: ma nei fatti pare quasi impossibile che possa includere nello stesso esecutivo sia il radicale di destra Lieberman sia la Lista araba unita. Da parte sua Netanyahu non si è dato per vinto, persuaso di essere lui il vero vincitore delle elezioni.
Mentre Gantz e Netanyahu litigavano così per aggiudicarsi il controllo del timone, Israele ha dovuto affrontare quattro emergenze simultanee: la sanitaria, la politica, la economica e la sociale.
L’annullamento dei voli dall’estero ed il crollo di tre compagnie aeree, la fuga immediata di 120 mila turisti, la chiusura in blocco di alberghi, ristoranti, caffé, teatri e cinema, hanno creato all’inizio di marzo una ondata di disoccupazione senza precedenti. Le difficoltà delle famiglie sono state aggravate dalla chiusura delle scuole e degli asili nido: chi anche aveva un lavoro, era spesso costretto a restare a casa per accudire i figli.

Sono state giornate frenetiche in cui i responsabili sanitari del Paese hanno fatto il possibile per impedire, o almeno limitare, la diffusione del virus. Si è allora presentata una domanda drammatica: fino a che punto lo Stato avrebbe dovuto spingersi, pur di salvare vite umane?
In un intervento alla televisione, Netanyahu ha spiegato che era ormai necessario “fare ricorso a tutti i mezzi, inclusi sistemi tecnologici messi a punto per la lotta al terrorismo, ed attivarli riguardo al pubblico civile”. Uno sviluppo che ha subito destato preoccupazione fra i difensori dei diritti civili. Secondo l’ex parlamentare laburista Micky Rosenthal si tratta di un sistema segreto e pericoloso, che la censura vieta di menzionare in maniera esplicita. “È una tecnologia penetratrice – ha avvertito su twitter – che sa ricostruire con precisione dove eravate e chi avete incontrato; che riconosce i volti. Una svolta drammatica contro la nostra privacy e contro la democrazia’’. Il concetto è che lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) la vorrebbe attivare a fin di bene: “per salvare così decine di migliaia di vite”, come ha spiegato il ministro Bezalel Smotrich.
Una volta individuato un contagiato dal virus, sarebbe possibile avvertire con messaggi sms chiunque si trovasse nelle sue vicinanze, per allontanarlo. Si potrebbero anche ricostruire a ritroso nel tempo i suoi spostamenti, le sue conversazioni, le sue attività. Una mole di dati su privati cittadini che, secondo il progetto, sarebbe comunque distrutta dopo 30 giorni.
Haaretz ha osservato che una svolta talmente allarmante non può di certo essere decisa da un governo di transizione, in pochi giorni, senza una approfondita valutazione. Comunque, ha aggiunto, dovrebbe essere seguita da vicino da una apposita commissione parlamentare, che fosse molto tenace e attenta, per evitare usi impropri. Ma al momento il parlamento è ancora in fase di organizzazione.
Ad accrescere i sospetti verso il governo uscente è giunta la decisione del ministro della giustizia (ad interim) Amir Ohana di proclamare lo stato di emergenza nei tribunali, a causa del coronavirus.
Una decisione a sorpresa, pubblicata a notte fonda, un giorno e mezzo prima dell’inizio del processo di Netanyahu per corruzione e frode, al tribunale distrettuale di Gerusalemme. La prima udienza è stata così rinviata alla fine di maggio. E se qualcuno pensava allora di organizzare manifestazioni di protesta, è sopraggiunta la misura – imposta dalle autorità sanitarie – di impedire assembramenti di più di 10 persone.
Nel 1997 la psichiatra Hamotal Shabtay (figlia del celebre scrittore Yaakov Shabtay) pubblicò un allarmante romanzo intitolato 2020, che descriveva il diffondersi di una grave epidemia negli Stati Uniti e gli sforzi disperati di contenerla, anche al prezzo di calpestare i diritti civili. L’apparato di governo diventava gradualmente sempre più simile a un Grande Fratello, con continue selezioni fra persone “sane” – che potevano proseguire la propria vita, sia pure con separazioni fisiche molto severe fra di loro – e persone “malate” che venivano immediatamente scaraventate ai margini della società. Un incubo di 638 pagine che, in questi giorni, sta andando a ruba fra gli israeliani.