Il grido del silenzio: viaggio in Israele, tra speranze e timori per il futuro

Israele

di Nathan Greppi

Camminando per le strade della piccola cittadina di Lehavim, la vita in apparenza sembra scorrere come prima: in giro si vede poca gente, anche perché molti dei residenti sono pendolari che durante il giorno lavorano a Beer Sheva e rientrano a casa solo per ora di cena; a parte qualche auto, il silenzio è interrotto solo dall’abbaiare dei cani e dal canto degli uccelli. Qui la fauna selvatica non manca: in anni passati poteva capitare di vedere volare di notte qualche pipistrello, o di sentire da lontano l’ululato di un coyote.

Eppure, se si gratta la superficie, anche in questo angolo del deserto del Negev non mancano i segnali che qualcosa è cambiato. Le bandiere israeliane non vengono più appese solo sui muri e sui tetti delle case, ma anche in posti dove prima era meno usuale vederle: tavole calde, centri commerciali, distributori di benzina. Segno che dopo il 7 ottobre, e con la guerra a pochi chilometri di distanza, le persone hanno riscoperto l’importanza di restare uniti come popolo. E di tanto in tanto, si sentono gli aerei militari diretti verso Gaza.

Anche nei rapporti con gli arabi che vivono in Israele, ad un primo sguardo le apparenze possono ingannare: se nel supermercato di Lehavim i commessi sono quasi tutti arabi israeliani, e nei locali kebab di Beer Sheva si possono vedere beduini ed ebrei lavorare insieme, diversi settori come quello edilizio si sono quasi completamente fermati. Questo perché vi è una considerevole differenza nella percezione israeliana tra gli arabi che vivono in Israele e quelli che vivono nei Territori palestinesi; se con i primi i rapporti non si sono deteriorati, anche perché non hanno condiviso le azioni di Hamas (e inoltre, tra le vittime del 7 ottobre e i rapiti vi sono anche dei beduini), i secondi non possono più entrare a lavorare nel paese. E questo va ad impattare quei settori dove rappresentavano il grosso della forza lavoro.

La comunità al confine

La prospettiva cambia quando dall’interno del paese ci dirigiamo verso Ein HaBsor: il 7 ottobre, i terroristi di Hamas hanno cercato di fare irruzione in questo moshav a circa sette chilometri dalla Striscia di Gaza, ma il loro assalto è stato respinto dalle guardie di sicurezza locale.

Ad Ein HaBsor, sotto numerosissime serre viene coltivata la frutta. Come in altre località della zona, anche qui la forza lavoro si è drasticamente ridotta: questo perché molti dei giovani sono stati richiamati al fronte come riservisti, mentre diversi lavoratori tailandesi sono stati costretti a fuggire per la guerra (anche se alcuni sono ritornati dopo le prime settimane di ostilità). In molti non se lo ricordano, ma oltre agli israeliani sono stati rapite e portate a Gaza anche persone di altre nazionalità; tra queste, i più numerosi sono i tailandesi che lavoravano come agricoltori nei kibbutz e nei moshavim vicini alla Striscia.

Per compensare la mancanza di manodopera, numerosi volontari si sono offerti per dare una mano a coltivare la frutta: nel nostro gruppo, non siamo solo israeliani, ma anche volontari provenienti dall’estero (italiani, americani, russi, ecc.), che lo fanno per senso di solidarietà verso i parenti che hanno in Israele o per convinzioni personali.

Il proprietario delle serre, che durante la pausa pranzo ha offerto ai volontari le dolci arance e ananas che lui stesso ha coltivato, ci ha raccontato che tra i rapiti portati a Gaza vi erano anche i suoi suoceri. La suocera è stata liberata, mentre il suocero è ancora prigioniero di Hamas; si tratta di uno dei tre anziani rapiti nel Kibbutz Nir Oz che, il 18 dicembre, sono apparsi in un video pubblicato dai terroristi.

Mentre versiamo il concime in appositi buchi dentro cui vengono poi inserite le piante di ananas, un cagnolino di circa tre mesi si aggira tra di noi in cerca d’attenzione; i proprietari lo hanno chiamato Ghibor, “Eroe” in ebraico, probabilmente per rendere omaggio a chi, il giorno dell’attacco, ha compiuto un gesto eroico.

 

 

 

Geopolitica e società

Spostandoci verso il centro del paese, appena fuori dalla città di Ra’anana, incontriamo Aryeh, ex-alto ufficiale dell’IDF in pensione. Davanti ad un barbecue con una vista sui campi, ci offre alcune analisi sulla situazione politica e sociale nella regione. Spiega come gli israeliani siano rimasti colpiti, ma purtroppo non molto sorpresi, nel vedere i palestinesi di Gaza e della West Bank festeggiare le atrocità del 7 ottobre: “Quello che invece è positivo, è che gli arabi israeliani al contrario sono rimasti molto scossi, e la maggior parte di loro non ha sostenuto i massacri. E questo, agli occhi dell’opinione pubblica israeliana, non è rimasto inosservato”.

Sia tra gli uccisi che tra i rapiti del 7 ottobre, c’erano anche diversi beduini, che oggi sono più ostili che mai a Hamas: in particolare, a novembre ha fatto discutere in Israele la notizia che una famiglia beduina di Tel Sheva ha messo una taglia da un milione di dollari sui terroristi che gli hanno ucciso il figlio 36enne Osama Abu Assa, dopo che è stato ritrovato un video in cui lo uccidono dopo averlo spogliato e torturato.

L’opinione di Aryeh è che il leader di Hamas nella Striscia, Yahia Sinwar, abbia agito anche per vincere una lotta interna per il potere tra i vertici del movimento: nel 2021, era stato rieletto a capo della dirigenza di Hamas per governare Gaza, ma superando di poco i suoi rivali che rappresentavano le fazioni più oltranziste. L’ipotesi è che l’attacco gli sia servito anche per mostrarsi più forte dei suoi avversari all’interno di Hamas, e difendersi dalle accuse di non risolutezza rivoltegli dai suoi avversari politici.

“Quello che Sinwar aveva calcolato, essendo stato tra i prigionieri rilasciati dalle carceri israeliane per liberare il soldato Gilad Shalit, è che con centinaia di ostaggi a Gaza gli israeliani non avrebbero attaccato”, ha spiegato. “Aveva anche calcolato che il 7 ottobre sarebbe stato l’innesco di una guerra totale, con reazioni fortissime anche da parte degli Hezbollah e del ramo di Hamas in Cisgiordania. Invece, in questo caso le reazioni sono state abbastanza contenute. Questo perché gli Hezbollah in questi anni non solo si stanno logorando in termini di uomini e mezzi nella guerra in Siria, ma anche perché la situazione in Libano è delicata a causa della crisi economica e politica interna, con sunniti e cristiani maroniti che potrebbero reagire violentemente contro Hezbollah, qualora causasse una nuova guerra che porterebbe all’indebolimento di tutto il paese”.

A dimostrare quanto la situazione in Libano sia tesa tra le varie fazioni, secondo lui, vi è un piccolo ma significativo episodio avvenuto nell’agosto 2023: dei camion di Hezbollah contenenti numerose armi sono passati attraverso il villaggio maronita di Kahaleh, e a seguito del ribaltamento accidentale di uno di questi, tra loro e la popolazione cristiana è scoppiato uno scontro a fuoco che ha causato due morti.

 

Speranze per il futuro

Tanya e Dan vivono in Israele dal 1990: lei è originaria della città di Togliatti, in Russia, così chiamata in onore del leader comunista italiano Palmiro Togliatti; mentre lui è nato a Dnipro, in Ucraina, e da tempo entrambi vivono a Lehavim. Lei è rimasta positivamente stupita “da questo senso di unità, che ha visto tutto il popolo riunirsi dopo il 7 ottobre. Tutti hanno dato ad altri quello che potevano dare, per aiutare i soldati e gli abitanti dei villaggi al confine”. Per il paese, dice, quello che è successo è stato “uno shock, nessuno pensava che potesse accadere una cosa simile”.

Dan fa notare come “la guerra in Ucraina e la guerra qui in Israele, hanno qualcosa in comune: nel momento in cui bisogna prendere le armi, ci si unisce. Lo dimostra come molti israeliani siano rientrati dall’estero appena è scoppiata la guerra”.

Viene da chiedersi se questo senso di unità nazionale rimarrà forte anche dopo che la guerra sarà finita. “La cosa importante è che di recente si è ricominciato a parlare della situazione politica”, spiega Tanya. “Il popolo pensa che la classe dirigente vada cambiata da entrambe le parti, sia a destra che a sinistra. Finora eravamo abituati ad avere sempre le stesse figure, che al massimo cambiavano partito, ma poi pensavano solo a restare attaccate alla poltrona. In questa guerra, stanno emergendo figure nuove, soprattutto giovani intelligenti provenienti sia dai ranghi dell’esercito che dall’industria high-tech, che secondo molti potrebbero diventare degli ottimi leader in futuro”.

A tal proposito, Dan spiega come lui e altri cittadini israeliani ripongano le loro speranze in “movimenti come Achim Laneshek (“Fratelli in armi”), che si impegnano nell’assistenza medica ai superstiti dei massacri e nell’aiutare gli sfollati dalle zone di confine a trovare delle sistemazioni. Per ora non si occupano di politica, ma speriamo che quando la guerra sarà finita vi entreranno, perché hanno dimostrato una grande forza morale. Un altro movimento è Habitchonistim (IDSF in inglese), formato da riservisti che svolgono varie attività anche educative e di informazione per garantire la sicurezza del paese. È di persone così che abbiamo bisogno”.

Nati come movimenti di protesta contro la riforma giudiziaria e formati da migliaia di riservisti dell’IDF, questi gruppi fanno parte di una rete più ampia di organizzazioni che dopo il 7 ottobre hanno deciso di dare momentaneamente la priorità al conflitto. Ma per il loro impegno, stanno riscuotendo un consenso sempre maggiore da parte della popolazione israeliana, comprese quelle fasce che in precedenza non condividevano le loro idee. E sono in molti a sperare che, a guerra finita, si trasformino in una vera e propria forza politica, in grado di cambiare corso all’attuale classe dirigente, oggi piuttosto impopolare.

L’unità di popolo e il desiderio di tornare alla normalità dell’israeliano medio vengono ben rappresentate da alcune occasioni particolari: partecipando con Tanya e Dan alla cena per il Novy God, il Capodanno russo, si possono vedere immigrati russi e ucraini seduti insieme da amici alla stessa tavola. Ma rispetto ad altri anni, c’è una differenza: per la prima volta, quando l’emittente russa annuncia l’anno nuovo, decidono di cambiare canale perché non vogliono più ascoltare il discorso di Putin, come spesso facevano in passato. Segno che questi non è più apprezzato dagli olim russofoni, i quali brindano affinché possa tornare la pace, in Ucraina come in Israele.