I rapiti israeliani tornati in patria: come curare il loro trauma e le ferite dell’anima

Israele

di David Zebuloni

Secondo i terapeuti, c’è un elemento inedito e insondabile: non è mai capitato nella storia di dover affrontare la sofferenza psichica di pazienti che vanno dai tre ai novanta anni. E che hanno creato tra loro un linguaggio segreto per sopravvivere. Per averne cura, bisogna inventare nuove strade

 

Nell’istante preciso in cui scrivo queste parole (16 dicembre 2024), i media israeliani riportano con inconsueto e imprudente ottimismo la notizia dei negoziati avanzati a favore del rilascio degli ostaggi. Secondo gli esperti, i più favorevoli che Israele e Hamas abbiano avuto dal 7 ottobre ad oggi. Con l’auspicio che il 2025 possa aprirsi con la più felice delle notizie, nella speranza che quando leggerete queste pagine i cento ostaggi innocenti nei tunnel del terrore a Gaza abbiano rivisto la luce e riabbracciato i loro cari, la realtà attuale israeliana è ancora insopportabilmente difficile.

La disperazione delle famiglie
Le famiglie degli ostaggi gridano la loro disperazione, ma non sono gli unici: anche gli ostaggi ormai liberati raccontano l’inferno che hanno vissuto nelle mani dei terroristi, e confessano con grande coraggio di non riuscire ancora a tornare alla vita precedente al 7 ottobre.
È trascorso infatti più di un anno da quel primo scatto che immortalava 13 ostaggi israeliani scortati dalla Croce Rossa e restituiti alle loro famiglie.
Giorno dopo giorno, per un totale di sette giorni, gli israeliani hanno trattenuto il fiato nell’attesa di scoprire quale ostaggio innocente sarebbe stato liberato e quale no. Tra il 25 e il 30 novembre 2023, ottanta donne, ragazzi e bambini hanno oltrepassato il confine e sono tornati a casa, ma non alla vita: il trauma, da allora, li accompagna ogni instante.
«Come si può reintegrare un ostaggio liberato nella società? Beh, innanzitutto è molto difficile parlare degli ostaggi al plurale: ognuno di loro ha la sua storia, la sua complessità», spiega Or Tzubari, responsabile del dipartimento Spade di Ferro presso il Ministero della Solidarietà Sociale. «Il mio dipartimento è stato creato in tempi record quasi dieci mesi fa, con l’intento di rispondere alle esigenze delle vittime della guerra, tra cui le famiglie degli ostaggi e gli ostaggi stessi».
Il dipartimento Spade di Ferro è dunque composto da decine di assistenti sociali che seguono gli ostaggi sin dal giorno della liberazione. «I nostri esperti fanno parte attiva del loro processo di riabilitazione -, sottolinea Tzubari. – Secondo la letteratura professionale, gli ostaggi e le loro famiglie si trovano attualmente in uno stato di trauma acuto persistente, ovvero vivono un dolore che non dà loro mai tregua».

Pertanto, secondo Tzubari, non si può trattare gli ostaggi liberati come si trattano gli altri pazienti che soffrono di un malessere psicologico: ciò che vale per tutti, non vale necessariamente per loro. «In molti ci chiedono se i bambini liberati siano tornati a scuola e alle attività extrascolastiche, ma non è detto che questi siano i parametri che dobbiamo considerare in questa fase della riabilitazione. Prima di tornare a scuola, è importante restituire loro la fiducia perduta il 7 ottobre. Senza fiducia nel prossimo, è molto difficile tornare a una routine normale».
Tuttavia, non solo bambini e adolescenti sono sopravvissuti al baratro della prigionia: anche giovani e anziane donne sono state liberate nel mese di novembre 2023. Proprio per questo motivo, il Ministero della Solidarietà Sociale ha deciso che gli assistenti sociali devono ricevere una formazione specifica in base al paziente che seguono nel processo di riabilitazione. «Lavoriamo in modo chirurgico -, conferma Tzubari. – Ci sono famiglie che dicono di non aver bisogno di supporto, e va bene così, è assolutamente legittimo, ma è importante che nel momento in cui ne sentano l’improvviso bisogno, sappiano che possono chiamare l’assistente sociale e ottenere il supporto più adeguato a loro».
Talvolta, i legami che si formano tra i terapeuti e i pazienti si rivelano essere davvero speciali. «So di un’assistente sociale che si incontra ogni settimana al bar con un ostaggio liberato», racconta Tzubari con grande emozione, ma tiene anche a specificare che, accanto ai piccoli e grandi traguardi umani e professionali raggiunti, le sfide che il Ministero della Solidarietà Sociale ha dovuto affrontare nell’ultimo anno sono privi di precedenti. Non solo in Israele, ma in tutto il mondo.

 

Gestione del trauma senza precedenti
Dopo il 7 ottobre, infatti, il dipartimento Spade di Ferro ha creato un intero sistema il cui scopo era rispondere a una necessità nuova, mai riscontrata prima nella storia dell’umanità. «Non esistevano ricerche attestate dalle quali potessimo attingere informazioni o imparare qualcosa di utile -, afferma la responsabile del dipartimento. – Così, negli ultimi dodici mesi, abbiamo inventato una nuova cura terapeutica basata su teorie di trattamento dei traumi derivanti da abusi».
In altre parole, le cure valide oggi non necessariamente si riveleranno altrettanto valide domani: tutto in Israele muta in tempo reale.

«I valori che ci guidano sono la flessibilità e la creatività -, specifica Tzubari. – Non ci basiamo più sugli strumenti terapeutici che avevamo prima del 7 ottobre, ma ogni giorno ne creiamo di nuovi». Metodi di riabilitazione che hanno già suscitato l’interesse del mondo intero. «In molti si dicono interessati alla teoria professionale che abbiamo scritto, e già la stanno studiando. Proprio una settimana fa, un consulente della Casa Bianca sulle questioni relative agli ostaggi, è arrivato in visita in Israele e ha reagito con grande stupore quando ha scoperto il sistema che abbiamo creato», aggiunge con orgoglio.

Secondo Tzubari, per comprendere davvero la psiche degli ostaggi, è fondamentale che i loro terapeuti interiorizzino a fondo il fatto che, nonostante la loro esperienza, mai potranno capire davvero cosa provano i sopravvissuti alla prigionia nelle mani di Hamas. Le testimonianze strazianti e sconvolgenti degli ostaggi liberati, infatti, ci permettono di comprendere solamente che mai potremo capire ciò che hanno vissuto: la fame, la sete, gli scarsi standard igienici, la difficoltà a respirare sottoterra, la violenza, le torture fisiche, gli insulti e gli abusi sessuali.

«Come parte del processo di riabilitazione, abbiamo creato una comunità di ostaggi liberati: uno spazio sicuro nel quale si possono incontrare e raccontare -, continua Tzubari. – Devo ammettere che è davvero affascinante e sorprendente vederli insieme. C’è qualcosa nel loro sguardo e nel loro umorismo nero condiviso che, senza alcuno sforzo e senza alcuna cura terapeutica attiva, diventa automaticamente, naturalmente parte integrante del loro processo di guarigione. Hanno un linguaggio tutto loro e spesso li sentiamo dire che nessun estraneo potrà mai capirli. Hanno ragione, è come se avessero una lingua segreta, tutta loro, inaccessibile a chiunque altro».
Quanto dura il processo di guarigione di questi piccoli grandi eroi? La risposta è semplice e terribile: per sempre. «Il Ministero della Solidarietà Sociale, così come gli assistenti sociali in carica, continueranno a seguire i pazienti finché ce ne sarà bisogno -, sottolinea Tzubari. – Siamo qui e rimarremo qui per loro, sempre. Restiamo al fianco delle famiglie che hanno già riabbracciato i loro cari e di quelle che ancora non l’hanno fatto. Ci prenderemo sempre cura di loro. Ieri, oggi e domani».
Sì, il viaggio verso la vera libertà si rivela lungo, difficile, doloroso, traumatico, ma è anche caratterizzato da piccoli momenti emozionanti. «Il compito dell’assistente sociale è quello di fare da custode all’entrata della porta di casa della persona, e attendere pazientemente il momento giusto di intervenire. La porta a volte rimane chiusa, a volte se ne apre giusto una fessura, a volte invece viene spalancata del tutto», afferma Tzubari.
«Non sempre i pazienti danno al loro terapeuta il permesso di varcare quella soglia immaginaria. C’è un’assistente sociale che nell’ultimo anno ha cercato ripetutamente di contattare un ostaggio liberato, senza successo. Solo tre giorni fa, per la prima volta, la sua famiglia si è rivolta a lei e le ha chiesto aiuto. Erano pronti a farsi assistere, e lei era pronta ad assisterli», aggiunge poi commossa.

Nel mese di luglio, 29 giovani e giovanissimi ostaggi liberati sono saliti su un aereo diretto a Miami.
A riempire i loro cuori, due sentimenti diversi ma terribilmente simili: la paura e il rimorso. Ecco, alcuni di loro hanno ancora il padre tenuto in cattività a Gaza. Per altri, invece, il senso di lutto vive ancora in loro con prepotenza feroce. Nonostante ciò, il gruppo di giovani israeliani, fino a un istante prima perfetti sconosciuti e ora legati da un surreale destino comune, hanno accettato l’invito dell’associazione “Leoshit Yad” (in italiano, Tendere la Mano) per intraprendere un viaggio unico nel suo genere.

Tendere la Mano
L’associazione in questione è solita organizzare delle esperienze di gruppo per i bambini malati di cancro, realizzando per loro quelli che talvolta si rivelano essere i loro ultimi desideri. Dopo la strage del 7 ottobre, i vertici di “Leoshit Yad” hanno deciso di rivolgere i loro fondi ai bambini rilasciati da Hamas e regalare loro una vacanza nei parchi di divertimento ad Orlando, negli Stati Uniti d’America. Il loro intento era semplice e nobile: restituire alle giovani vittime interrotte dal terrorismo un po’ di quella spensieratezza andata perduta.

La Comunità ebraica di Miami ha dunque accolto i suoi 29 giovani e coraggiosi visitatori con montagne di regali e, soprattutto, con uno straordinario team di volontari dalle energie inesauribili che, per otto lunghi giorni, ha scortato ovunque i suoi ospiti, abbracciandoli con affetto e premura sincera, ballando e cantando con loro e per loro, facendoli ridere fino a lacrimare. Molti, d’altronde, avevano dimenticato cosa volesse dire piangere di gioia. E non di dolore.

Il viaggio si è presto rivelato essere straordinariamente importante per il loro processo di riabilitazione. Sorprendentemente terapeutico e curativo per i loro cuori infanti, le loro anime lacerate, le loro menti fortemente traumatizzate. Non tanto per i regali preziosi e le visite esclusive nei parchi a tema, quanto per, ancora una volta, il tempo trascorso insieme. Solo loro e nessun altro. 29 bambini che hanno conosciuto il male nella sua forma più atroce.

Le conversazioni tra loro, secondo quanto riportato dagli accompagnatori, variano dal comico al tragico. Una sera, per esempio, alcuni di loro non riuscivano proprio a smettere di ridere pensando alle brutte ciabatte che i terroristi avevano dato loro nei tunnel. Un attimo dopo, le forti risate si sono trasformare in pianti disperati. C’è chi ha raccontato di aver visto i terroristi uccidere i suoi genitori. C’è chi ha rievocato il momento in cui i terroristi gli sono entrati in casa, armati fino ai denti, e l’hanno trascinato fuori dal letto, scalzo e in pigiama. C’è chi ha confidato di essersi arreso all’idea di dover trascorrere il resto della sua vita nei tunnel di Hamas.

E ancora, una bambina di nome Mica si è rifiutata categoricamente di mangiare il riso in quanto unico alimento che ha ingerito per 52 giorni di prigionia. Un bambino di nome Yagil ha avuto un attacco di panico quando un gruppo di turisti si è messo ad applaudire proprio accanto a lui: quel rumore gli ha ricordato l’ingresso a Gaza, quando i cittadini palestinesi hanno accolto i terroristi e i loro nuovi trofei con grida di gioia e applausi estasiati. Un’altra bambina di nome Amelie si è rifiutata di provare ogni attrazione del parco giochi che comprendesse un percorso al buio. Dopo il rilascio dalla prigionia, non riesce a trascorrere più di un minuto in un luogo non illuminato.

«Trascorrere otto giorni con questi straordinari bambini è stato un vero giro sulle montagne russe: un attimo prima tocchi il fondo, un attimo dopo sei di nuovo in cima – ha commentato la giornalista Yael Odem, inviata per conto della rete N12 a Miami. – Per otto giorni mi sono sentita appesa a un filo, nel limbo tra la gioia e il dolore. Tra le lacrime e il sorriso. È stata l’esperienza più estrema che io abbia mai vissuto. La più difficile forse, ma non me ne pento».
Ecco, se Yael la adulta non sopravvissuta a nessun rapimento e non scampata a nessuna tortura descrive questa vacanza come una delle esperienze più difficili della sua vita, mi domando inutilmente cosa provino i bambini ostaggio oggi, dopo il loro rilascio.
Probabilmente non avrò mai una risposta. Probabilmente ha ragione Or Tzubari: nessuno potrà mai capire davvero cosa passi loro per la mente. Tuttavia, ancora una volta, se comprendere è impossibile, conoscere è assolutamente necessario. Oggi, forse, più che mai.