Ebrei persiani in Israele: soffrire per i due fronti della guerra

Israele

di David Zebuloni

L’Iran radicale e indistruttibile, così come lo conoscevamo fino all’attacco israeliano nei cieli di Teheran, forse non esiste e non esisterà più. Il regime oggi è vulnerabile, isolato, spaventato. Ma ha reagito, bombardando Israele e le basi americane nel Golfo. Come vivono tutto questo gli israeliani di origine iraniana? Sperando nel crollo del regime, per poter visitare l’antica patria

L’attacco di Israele all’Iran il 13 giugno ha certamente avuto grandi ripercussioni sugli equilibri non solo mediorientali, ma anche mondiali. Alleanze, forze e sistemi cristallizzati in decenni sono scossi nel profondo. Tra attacchi reciproci, cessate-il-fuoco, pressioni internazionali, la situazione è in continua evoluzione e solo il tempo ci dirà se gli effetti del conflitto saranno positivi o negativi per Israele e per la popolazione. E se l’incubo del nucleare iraniano sia finito per sempre. Quello che è certo è che questo conflitto ha fatto nascere un nuovo moto di speranza in Iran, che ha scosso gli animi stanchi di chi aveva perso fiducia in un futuro di democrazia per la propria patria. E non mi riferisco solo a quei coraggiosi dissidenti iraniani che da anni si battono per la liberazione del loro popolo, ma anche agli ebrei iraniani, oggi sparsi principalmente in Israele, a Milano, a Londra e a New York, che non hanno mai dimenticato, rinnegato o cancellato le loro origini.

Ebrei ancora straordinariamente legati alle loro radici, che hanno abbracciato delle nuove culture senza mai dimenticare quella di provenienza. Figli e nipoti di quella storia che oggi cercano la loro voce, lacerati tra passato e presente. Una crisi identitaria che non permette loro di vivere questo conflitto come hanno già vissuto i conflitti con Hamas, con Hezbollah, con gli Houti. Giovani ebrei israelo-iraniani che oggi faticano a definire “nemico” il loro paese di provenienza, ma che riconoscono la minaccia esistenziale che esso rappresenta per loro.

“Credo che, a differenza dei conflitti precedenti, il conflitto in corso contro il regime iraniano suscita in me più curiosità e coinvolgimento, poiché emotivamente vicino”, mi racconta Yael Carmeli, giovane sociologa e ricercatrice universitaria presso la Hebrew University di Gerusalemme. “Sento le conversazioni dei miei genitori e dei miei nonni, e sento che ne parlano diversamente. Che si immedesimano, che si preoccupano particolarmente per il destino degli iraniani. Ecco, questo non può che influire anche sulla mia personale percezione della guerra”. Yael nasce infatti da due genitori di origini persiane. La madre italiana, ma originaria della città di Mashad, e il padre israeliano, ma nato e cresciuto a Teheran.

«Non posso non pensare che, se il regime realmente crollerà, potrò finalmente partire in Iran e visitare i luoghi nei quali hanno vissuto i miei antenati – prosegue la ricercatrice. – Personalmente sto seguendo questo conflitto più di quanto abbia fatto con i precedenti. Tuttavia, la paura è assolutamente proporzionale al coinvolgimento. E in questo caso, non una paura per  il nostro destino, il destino di Israele e per il popolo ebraico, ma per il precario destino dello stesso popolo iraniano. Provo per loro un inspiegabile e innato senso di solidarietà. D’altronde, non è difficile immedesimarsi in loro: mi assomigliano vagamente, la loro lingua mi è assolutamente famigliare e così anche le loro usanze».

E non è tutto. Oltre a simpatizzare per il popolo iraniano e per la sua sacrosanta causa, Yael si rifiuta categoricamente di riconoscere in lui un nemico. «Il regime è il nemico di Israele, ma a differenza di altri popoli sparsi per il Medio Oriente, il popolo iraniano ama e sostiene il popolo ebraico e lo Stato d’Israele. Non posso e non voglio desiderare il loro male, così come loro non hanno mai desiderato il mio. Il nostro. Dunque, non posso fare altro che auspicare alla caduta del regime. E pregare per una pace tra i due popoli». 

Gli effetti di un missile iraniano che ha colpito una zona residenziale a sud di Tel Aviv

 

Yaniv Sayeh l’ho conosciuto quando, svariati mesi fa, cercavo degli ebrei iraniani che si fossero recentemente trasferiti in Israele. Dopo una serie infinta di ricerche estenuanti e molto poco producenti, ho finalmente incontrato Yaniv: un giovane ragazzo israelo-iraniano che mi ha spalancato la porta su un mondo a me sconosciuto. In Israele, infatti, esiste oggi una piccola comunità di giovanissimi ebrei nati e cresciuti Teheran, e recentemente fuggiti nello Stato Ebraico in cerca di libertà. Giovani e coraggiosi ebrei disposti a varcare il confine pur di fuggire dalla realtà dittatoriale che vige nella terra degli Ayatollah, consci di dover abbandonare tutto alle loro spalle. Forse, per sempre.

Yaniv funge per loro oggi da casa e famiglia. Sostiene questa piccola e schiva neo comunità con grande e mai scontata sensibilità. «Entrambi i miei genitori sono nati a Teheran – mi racconta. – La mia mamma è fuggita dopo la rivoluzione islamica e il mio papà dopo la guerra con l’Iraq. Puoi dunque immaginare quanto la cultura iraniana sia parte di me e della mia famiglia. I miei genitori mi hanno insegnato la lingua persiana e a casa di mia nonna, ogni tavolata viene arricchita con qualche prelibatezza persiana. Suono anche il Tau, uno strumento a corde iraniano, e ultimamente mi sto dedicando allo studio della poesia, della letteratura e della filosofia persiana».

Un legame viscerale che oggi viene messo a dura prova. «È difficile per me vedere le mie due patrie in guerra – spiega Yaniv. – Sai, sono cresciuto sui racconti dello Scià buono e dello stravolgimento che ha subito il suo, il nostro paese dopo l’avvento di Khomeini. Per anni in casa abbiamo parlato, anzi discusso, della possibilità che il regime venisse rovesciato. Quando? Come? Per mano di chi? E ora mi domando: ci siamo? Il regime sta crollando? È questo il momento che abbiamo sempre sognato? Sta davvero per succedere? Non ho una risposta a questa domanda, ma so che qualcosa è cambiato. Che qualcosa è diverso. La guerra è sempre triste, sempre dolorosa, sempre sbagliata, ma oggi c’è nell’aria qualcosa in più. Forse, una speranza perduta e ora ritrovata. Desidero da sempre visitare la città di Esfahan e d’un tratto questo sogno non mi sembra più lontano. O irrealizzabile. Spero di non illudermi e spero soprattutto di non rimanere deluso dall’accoglienza iraniana, quando questa guerra sarà finita e si potrà finalmente parlare di pace. Reputo gli iraniani miei fratelli e non vorrei scoprire  che questo sentimento sincero non è ricambiato».

L’emozione di Yaniv è papabile. «Sono giorni che non penso ad altro. Che immagino mille scenari possibili per la fine di questa guerra. Dai più pessimisti ai più ottimisti –  mi confessa. – Ho mille dubbi e perplessità, ma di una cosa sono certo: al termine di questi combattimenti dobbiamo assolutamente essere persone migliori. Popoli migliori. Più vicini, più uniti. Nulla ha avuto senso se, finita questa guerra infinita, il Medio Oriente non diventerà un luogo più libero e sicuro nel quale vivere. Per tutti».

Un’altra immancabile voce in questo nostalgico mosaico di vissuti e riflessioni, è quella di Noa Yanai, la mia più cara amica degli anni dell’Università, oggi Chief Marketing Officer di un’importante società di moda. Anche Noa, come me e come gli altri giovani intervistati, ha delle forti origini iraniane. «Non mi dà pace questa guerra contro l’Iran – mi ha confidato una notte al telefono, mentre allattava sua figlia e aspettava il suono della sirena antimissili. – So che è una guerra necessaria. So che gli iraniani stessi desiderano l’aiuto di Israele per liberarsi dei loro tiranni, ma non riesco proprio a scindere le mie due identità». Una vera e propria renaissance identitaria, che non possa inosservata. «Fa sorridere, non sono mai stata tanto legata alle mie origini come in questo periodo – aggiunge poi. – Da bambina pensavo che le nostre usanze fossero goffe e grottesche, oggi invece penso che senza quel passato, il mio presente sarebbe completamente diverso. Che senza le canzoni iraniane di mia mamma e il cibo persiano di mia nonna, oggi non sarei la donna che sono. La madre che sono. Ironico, non trovi? Non conosco nemmeno un iraniano, eppure ho a cuore il destino del loro intero popolo».

Non ho fatto in tempo a rispondere: la sirena è suonata, la bambina è scoppiata a piangere e Noa ha riattaccato la chiamata prima che potessi dirle di essere stranamente d’accordo con lei (una vera rarità). No, non è ironico avere a cuore il destino di un popolo che appartiene a un tuo passato remoto. Un paese i cui odori e sapori ti rievocano casa. Una casa che non hai mai visitato, eppure che ti porti dentro. Talvolta, inconsciamente. Inconsapevolmente. Una sorta di memoria cellulare proiettata sulle emozioni. Sogni e ricordi che non vengono trasmessi a parole, ma in piccoli gesti. O melodie lontane. Chissà, forse nello stesso latte materno. Forse, in attesa del suono della sirena, mentre allattava sua figlia, Noa le stava trasmettendo anche le memorie dei suoi antenati. I piatti della nonna, le canzoni della mamma. Le radici che un giorno definiranno la donna che sarà. La mamma che a sua volta diventerà. Lo scrittore sopravvissuto alla Shoah Primo Levi constatò in una delle su opere che “non c’è futuro senza passato”. Molti giovani ebrei iraniani oggi aggiungono: senza pace, non c’è futuro. Un futuro privo di terrorismo, all’insegna della democrazie. Della fratellanza. Un nuovo slogan: Israeliani, Iraniani, Vita, Libertà.

La profezia di Reza Ciro Pahlavi

Nel novembre del 2023, tra le pagine di questa testata venne pubblicata un’intervista che realizzai con l’erede al trono del Pavone, Reza Ciro Pahlavi. Oggi, a distanza di un anno e mezzo da quell’indimenticabile incontro, rileggo le sue parole e quasi non mi capacito della loro attualità. All’epoca, confesso, pensai che il re senza trono e senza corona stesse ostentando un ottimismo forzato, poco autentico. Oggi mi ricredo e chiedo venia: Reza sapeva esattamente quale sarebbe stato il destino del suo popolo e del suo paese.

“Se un giorno ci sarà la pace tra Israele e Iran? Assolutamente sì, senza alcuna ombra di dubbio. Non perché lo dico io, ma perché lo dicono milioni di iraniani. Credimi David, non immagini quanto potenziale strategico potrebbe esserci tra i due paesi”, mi spiegò l’erede al trono con fermezza, senza esitare. Poi aggiunse: “La mia non è una speranza o un augurio, ma una piena certezza. L’attuale regime iraniano comprende tutte le peggiori forme di regime che abbiamo conosciuto nell’età moderna. È un regime al contempo totalitario, razzista e fascista. Ecco, la storia ci insegna che i regimi totalitari, alla fine, crollano sempre ed è la pace a regnare”.

 

Devastato l’Ospedale Soroka di BeerSheva