Droni contro aquiloni: la nuova guerra che distrugge il sud di Israele

Israele

di Ilaria Myr

Palloncini e aquiloni a cui sono attaccate bombe molotov e stracci incendiari: queste sono le nuove “armi” con cui Hamas sta bruciando la zona del Negev al confine con Gaza.
Ciò accade nel silenzio colpevole dell’Occidente, troppo impegnato a condannare e boicottare sempre e solo Israele

l sud di Israele brucia: da marzo, e quotidianamente da inizio giugno, palloncini e aquiloni incendiari – a cui sono attaccati stracci in fiamme o molotov – lanciati dalla Striscia di Gaza colpiscono e devastano il territorio israeliano. Oltre 17.500 dunam (circa 1.750 ettari) di foreste di proprietà del Keren Kayemet Leisrael sono stati bruciati dall’inizio di questi attacchi: più di quanto è andato arso durante l’operazione dell’esercito israeliano Protective Edge nel 2014, hanno confermato esponenti del Corpo dei pompieri, quando i terroristi di Hamas lanciarono oltre 4.500 razzi e mortai in Israele. Ingentissimi i danni causati dagli incendi: oltre 2,5 milioni di dollari, secondo alcune stime, destinati a crescere quanto più dureranno questi attacchi. Una perdita importante, che ha spinto il ministero dell’Agricoltura a offrire dei compensi ai contadini colpiti – come accade per le famiglie toccate da attentati – dai roghi: 60 shekel, circa 15 euro, per ogni dunam andato in fiamme (0,1 ettari).
È una nuova guerra, diversa da quelle che Israele è abituata a combattere ai suoi confini, che utilizza “armi” non convenzionali, che l’Iron Dome e i sofisticatissimi sistemi israeliani non riescono a intercettare: una guerra basata su quella che i tecnici definiscono la strategia di “enormous overkill”, una tattica di logoramento che prevede l’adattamento della tecnologia civile a buon mercato e facilmente reperibile da scagliare contro i costosi sistemi di fascia alta progettati per la guerra convenzionale tra Stati.

 

Dal canto suo, Israele ha inizialmente avuto non poche difficoltà per capire come gestire questa nuova tipologia di conflitto, tanto che prima ha dovuto dispiegare le sue forze speciali e i tiratori scelti lungo la barriera fortificata che separa Israele dalla Striscia di Gaza per poi, in un secondo momento, utilizzare dei droni a basso costo gestiti da personale militare e civile che colpiscano le “armi volanti”.
E intanto il sud continua a bruciare, e a pagarne le conseguenze sono i residenti della zona: l’11 giugno è stato evacuato il villaggio di Karmei Katif, minacciato dalle fiamme, mentre vivono quotidianamente nel terrore i membri dei kibbutz – Nahal Oz, Be’eri, Keren Shalom, Nir Yitzhak, Sufa e molti altri – che da anni ormai subiscono gli attacchi da Gaza (missili, mortai e ora gli “aquiloni”) e vivono sotto la minaccia costante di vedere terroristi palestinesi sbucare da un tunnel sul proprio territorio. Chi non conosce questa realtà non sa che molti di questi kibbutz fanno capo al movimento HaTnu’a haKibbutzit, legato alla sinistra del partito laburista e al movimento dell’Hashomer Hatzair: molti dei loro abitanti sono pacifisti convinti, costretti però dalla minaccia continua che arriva da Gaza a pretendere giustamente dal governo di essere difesi. Intanto le loro terre vengono devastate, i loro asili vengono colpiti da missili e colpi di mortaio (come è successo il 30 maggio, per fortuna senza feriti), periodicamente Hamas lancia razzi, che costringono gli israeliani a nascondersi nei rifugi, in pochi vitali secondi.

IL SILENZIO OTTUSO DELL’OCCIDENTE
E l’Occidente in tutto ciò tace. La strategia degli aquiloni viene raccontata dai media come una nuova fase di quella che viene chiamata, fin dal suo inizio, “rivolta pacifica” dei palestinesi ai confini fra Gaza e Israele in occasione dei 70 anni dell’Indipendenza di Israele – la “Nakba”, la catastrofe per i palestinesi – e che altro non è che un tentativo di entrare illegalmente nel territorio israeliano da parte di persone armate, molte delle quali terroristi. Lo dimostra anche l’ammissione della stessa Hamas di “avere perso 50 combattenti”, a metà maggio, quando la reazione israeliana ai continui attacchi alla zona di sicurezza ha causato la morte di 62 persone. E che dire dei missili lanciati da Hamas e dallo Jihad Islamico palestinese il 29 maggio, quando è stato colpito l’asilo di un kibbutz? Nessuna denuncia di questi atti, al contrario: all’Onu la proposta della rappresentante Usa, Nikki Haley, di condannare collettivamente il lancio di razzi è stata bloccata dal Kuwait, mentre poche settimane prima le Nazioni Unite avevano avviato un’indagine sulla condotta israeliana al confine con Gaza. «È una vergogna che il Consiglio di Sicurezza rinunci a condannare gli attacchi di Hamas contro i cittadini israeliani, quando il Consiglio per i diritti umani dell’ONU ha deciso di inviare una squadra di ricerca per investigare sulle iniziative israeliane di autodifesa lungo il confine con Gaza», aveva replicato Nikki Haley.

VALENCIA VOTA IL BOICOTTAGGIO
Eppure, l’Occidente – a eccezione degli Usa – non reagisce, i media non ne parlano e se lo fanno è sempre nella logica due pesi, due misure; anzi, quando può condanna Israele, boicottandone l’economia e la cultura. Molto grave è la recente decisione della municipalità di Valencia la terza città di Spagna, di boicottare Israele, definito “Stato criminale”. La mozione adottata è stata presentata dal partito di estrema sinistra Podemos e definisce Valencia come “zona libera dall’Apartheid israeliana”.
Ma ciò che è più grave è che il leader del partito, Pablo Iglesias Turrión, abbia definito Israele “Paese illegale”: un’accusa, questa, che è stata identificata come antisemita dal gruppo pro-Israele spagnolo ACOM, che negli ultimi anni ha ottenuto ben 24 soppressioni, sospensioni o annullamenti di mozioni di boicottaggio di Israele approvate da municipalità spagnole.
Mentre dunque l’Onu condanna Israele, mentre i giornali italiani dedicano copertine al “massacro di Gaza” (vedi L’Espresso del 20 maggio) e importanti città degli Stati occidentali lo boicottano, la zona del Negev al confine con Gaza, – quella parte desertica dove i verdi kibbutz e le foreste del KKL rendono ancora più evidente la grandezza del “miracolo israeliano” – continua a bruciare.