Figli, padri e la memoria della Shoah: il romanzo “Canaglia” raccontato dall’autore Itamar Orlev

Eventi

di Pietro Baragiola
“Cosa vuoi da me?”
“Sapere, solo sapere. Tutto qua”
“E io non voglio raccontare.”

Questo è solo uno dei molti dialoghi che descrivono il difficile rapporto tra Stefan e Tadek Zagorski, padre e figlio di origine polacca, protagonisti di Canaglia, il romanzo d’esordio dello scrittore israeliano Itamar Orlev. Il titolo del racconto (dall’originale ebraico “Bandit”) presenta un triplice significato: è rivolto al tipico farabutto di strada; viene usato dai genitori per rimproverare i figli; era il termine scelto dai nazisti nei confronti dei partigiani polacchi, come Stefan.

La trama si sofferma sulla difficile epopea di Tadek nel ritrovare il padre alcolizzato e violento per conoscere il suo passato e avere le risposte che potrebbero rendere lui, a sua volta, un genitore e un essere umano migliore.

“Un libro che mostra il tentativo di ricostruirsi un’identità in un’Europa che, purtroppo, è unita solamente da un’esperienza negativa: la tragedia di uno sterminio” ha spiegato David Meghnagi, docente dell’Università degli Studi Roma Tre, durante l’incontro con Itamar Orlev, tenutosi a Milano il 28 febbraio.

Una storia vera di padri e figli

Nonostante sia stato pubblicato nel 2015 e tradotto nel 2022 da Silvia Pin per la casa editrice Giuntina, il romanzo Canaglia ha un’origine molto più lontana. L’idea del racconto nacque più di trent’anni fa quando il padre dell’autore, Uri Orlev, a sua volta scrittore molto famoso in Israele, fu approcciato dal regista Ami Drozd, interessato a trasformare uno dei suoi libri in un film.

Lavorando insieme, i due artisti iniziarono a scambiarsi storie della propria infanzia in Polonia e, dopo aver ascoltato le vicende del padre di Ami (Stefan), Uri iniziò a scrivere un libro su di lui. L’autore registrò dozzine di interviste ma, con il passare del tempo, si rese conto di odiare troppo la figura paterna burbera e violenta rappresentata da Stefan e decise di abbandonare il progetto.

Diversi anni dopo, quando scoprì che suo figlio Itamar aveva ereditato la passione per la scrittura, Uri decise di affidare al giovane il materiale raccolto nella speranza che completasse il libro al posto suo. Itamar rimase completamente affascinato dalle registrazioni sulla vita di Ami e Stefan ma era convinto che al racconto mancasse un tocco personale per evolversi da semplice biografia a romanzo capace di coinvolgere il pubblico. Provvidenzialmente, l’ispirazione arrivò sei mesi dopo con la nascita del suo primogenito: “in quel momento capii che volevo scrivere di un triangolo tra padri, figli e padri” spiega Itamar, che creò il protagonista “Tadek” fondendo alcune caratteristiche del regista Ami, la propria vicenda personale e materiale inventato.

La trama

La storia ha inizio nella Gerusalemme del 1988 dove Tadek, scrittore fallito, viene abbandonato dalla moglie e dal figlio di 5 anni a causa delle sue inadempienze come marito e come padre. Nel disperato tentativo di scoprire ciò che lo ha reso un fallito, il protagonista ricorda l’infanzia in Polonia e decide di partire alla volta di Varsavia per ritrovare suo padre, Stefan, che non vede da 20 anni. Nel 1968, infatti, agli ebrei polacchi era stata data la possibilità di emigrare in Israele e la madre di Tadek aveva colto l’occasione per fuggire con i figli lontano dalle brutalità del marito alcolizzato e della Polonia socialista. “Un luogo alienante che faceva sentire esotici i suoi cittadini ebrei”, come lo ha definito  Cyril Aslanov, docente dell’Università Ebraica di Gerusalemme collegato in video.

La persona che Tadek trova nella casa di riposto per reduci di guerra di Varsavia è uno Stefan ormai vecchio e perseguitato dalle atrocità subite e commesse durante la II Guerra Mondiale. Un personaggio complesso, violento, sadico, alcolista ma anche carismatico e portato per la musica. Un uomo volgare ma ironico. Questa dicotomia è descritta perfettamente nelle parole di Tadek “volevo bene al padre che odiavo”, sulle quali il protagonista riflette dopo aver preso in spalla il collerico genitore per raggiungere il treno in partenza, come un moderno Enea con il padre Anchise.

Un viaggio che li porterà attraverso i luoghi della loro gioventù in una Polonia in rovina, ormai alla fine del regime comunista, dove il coprifuoco scatta alle 20 e non si possono comprare neppure i fiammiferi perché i russi hanno requisito il legname.

Ad episodi di sconcertante tragedia si alternano momenti di incredibile tenerezza come quello in cui Tadek aiuta Stefan a farsi il bagno. È qui che il padre rivela, oltre alle cicatrici fisiche inflitte dai nazisti nel campo di prigionia di Majdanek, le ferite psicologiche della sua partecipazione nell’Armia Kajowa, il movimento di resistenza polacco, dove si è occupato delle uccisioni dei collaborazionisti. “Ho ucciso abbastanza. A un certo punto ho smesso di contare.”

L’eredità dei sopravvissuti

Un ricongiungimento famigliare fallimentare ma utile a far capire a Tadek le ragioni che hanno reso il padre così avverso alla vita. Stefan, infatti, fa parte di quei sopravvissuti la cui mente è rimasta per sempre vittima degli orrori della guerra.

Itamar Orlev descrive con grande destrezza la potenza della guerra nella memoria dei sopravvissuti in quanto il suo stesso padre, Uri, era un superstite della Shoah e ne ha sempre parlato apertamente a Itamar e ai suoi fratelli sin da piccoli, narrando le vicende attraverso lo sguardo di un bambino com’era lui durante il conflitto.

Questa genuinità ha reso Canaglia un romanzo in grado di vincere il premio Sapir in Israele e il Prix du Meilleur Roman des lecteurs Points in Francia.

Il desiderio di prendersi cura delle nuove generazioni, affrontando insieme gli spettri del passato, è ciò che guida personalmente Itamar Orlev nella scrittura del suo racconto dal momento in cui prese in braccio il suo primogenito e ispirazione per il libro, dicendogli con affetto: “non ti preoccupare, papà è vicino a te”.