Rifugiati polacchi in India

Un documentario svela la storia dello “Schindler dell’India”

di Nathan Greppi
Durante la Seconda Guerra Mondiale, furono molti i bimbi ebrei e cattolici che, dopo essere rimasti orfani, dovettero affrontare un futuro pieno di pericoli e incertezze. Tuttavia, alcuni di loro ebbero la fortuna di ottenere asilo in India grazie all’intervento di quello che allora era il maharaja, ovvero il re, dello stato del Gujarat. Questa è la storia che ha ispirato il documentario Little Poland in India, diretto dalla cineasta indiana Anu Radha e uscito per la prima volta nel 2013.

Come raccontava il Times of Israel nel luglio 2017, mentre l’Europa era dilaniata dagli orrori della guerra e della Shoah, il Generale Wladyslaw Sikorski, allora Primo Ministro polacco in esilio, scrisse a Winston Churchill per chiedergli di proteggere i bambini orfani, che lui definiva “il tesoro della Polonia”. E sebbene l’India stesse lottando per ottenere l’indipendenza dall’Impero britannico, il Maharaja Digvijaysinhji Ranjitsinhji (più noto con il soprannome di Jam Sahib, che vuol dire “re padrone”) accettò di aiutare chi era in pericolo.

All’epoca il consolato polacco a Bombay aveva dato il via a una campagna mediatica per sensibilizzare l’opinione pubblica indiana sulla questione dei rifugiati ebrei, oltre a organizzare il loro viaggio verso il paese asiatico: nel 1942, furono 1000 i bambini ebrei che partirono per l’India dalla Siberia, dove erano stati deportati nei gulag dopo che l’Unione Sovietica aveva invaso la Polonia. Dopo un viaggio lungo e tortuoso, furono accolti dal loro benefattore.

Ma non fu così semplice: alle navi che partivano dalla Persia per portarli a Bombay fu spesso impedito di sbarcare dalle autorità locali. Quando il Maharaja, che faceva anche parte del Comitato di Guerra Imperiale, venne informato della situazione, egli fece costruire un campo profughi nel villaggio di Balachadi. Il campo rimase fino agli inizi del 1946; successivamente, i bambini furono trasferiti nella città di Kolhapur. Ad allestire i campi, all’epoca, furono la Croce Rossa, l’Esercito polacco in esilio e l’amministrazione coloniale. Inoltre, il maharaja fece costruire una scuola apposta per i bambini. Una sensibilità, la sua, tale per cui i bambini lo chiamavano “Bapu”, padre.

Il documentario Little Poland in India è frutto di una co-produzione indo-polacca, ed è il primo a trattare la storia dei profughi accolti in India dal Jam Sahib. Tra i produttori figurano il Governo del Gujarat e le emittenti televisive pubbliche indiana e polacca.

Dopo la guerra, lo stato polacco ha reso omaggio a quest’uomo in molti modi: a Varsavia esiste la “Via Buon Maharaja”, e gli venne conferita una Medaglia d’onore.

Il 29 giugno il film venne proiettato al consolato indiano a New York, e alcuni degli spettatori ebrei dissero che Israele dovrebbe rendere omaggio anche al Jam Sahib come ha fatto con Oskar Schindler. In quell’occasione, la regista Radha spiegò di aver ricevuto un notevole aiuto da parte dell’Ambasciata polacca a Nuova Delhi, che gli ha procurato un libro intitolato Poles in India: 1942-1948, che in fase di produzione si è rivelato una fonte preziose. Inoltre, un sostegno considerevole è venuto anche dalla famiglia del Jam Sahib. Attualmente, sta girando un secondo film, incentrato sul campo profughi di Valivade.

I profughi che dopo la guerra tornarono in Polonia formarono persino un’associazione, Polacchi in India. Una conferma di quanto siano grati al paese che, quando hanno perso tutto, è diventato la loro nuova casa.