di Davide Cucciati
Dopo 60 anni, è un documento che parla ancora al presente. Segnò una rivoluzione nei rapporti fra ebraismo e cristianesimo, in una logica di “antica alleanza” riconosciuta dalla Chiesa. Ma resta ancora del lavoro da fare, affinché i rapporti fra le fedi ne siano davvero trasformati. Intervista a Monsignor Fumagalli
Quando, il 28 ottobre 1965, Paolo VI promulgò l’enciclica Nostra aetate si aprì una stagione nuova nei rapporti tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane. Una rivoluzione, una svolta epocale. Per la prima volta, in modo solenne e universale, il magistero affermava che “la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non cristiane”, riconoscendo quanto di “vero e santo” è presente anche fuori dai confini visibili del cristianesimo.
È soprattutto il paragrafo dedicato all’ebraismo a segnare una svolta epocale: vi si riafferma, in sostanza, la validità dell’“antica Alleanza”, si rigetta ogni forma di antisemitismo e si afferma che gli ebrei “rimangono carissimi a Dio”, in virtù di una vocazione irrevocabile.

Sessant’anni dopo, Nostra aetate continua a interrogare. Non come documento del passato ma come parola viva e capace di offrire una grammatica spirituale per il nostro tempo. Lo ricorda con forza Mons. Pier Francesco Fumagalli, dottore ordinario e vice prefetto della Biblioteca Ambrosiana, docente di Lingua e Cultura Cinese all’Università Cattolica del Sacro Cuore, consultore dell’Institute of Morality and Religions dell’Università Tsinghua di Pechino e responsabile per i rapporti con l’Ebraismo dell’Arcidiocesi di Milano, nel suo recente saggio pubblicato su Pro Dialogo, dove invita a rileggere quel testo come una sorgente ancora aperta, da non archiviare nella memoria conciliare. La dichiarazione, sostiene, non è solo una risposta alla storia tragica del Novecento, alla Shoah e alla lunga ostilità teologica verso Israele, ma è anche una profezia che riguarda la nostra società contemporanea, sempre più attraversata da conflitti identitari, derive fondamentaliste e nuove forme di esclusione religiosa. Per Fumagalli, la portata teologica di Nostra aetate è tanto profonda quanto fragile: non basta invocarla nei documenti ufficiali. Occorre che si radichi nella pastorale quotidiana, nella formazione, nei gesti. Solo così potrà davvero trasformare i rapporti tra i popoli e le fedi, aprendoli a un’alleanza nel servizio dell’umano. E sarà allora possibile intravedere, anche nei frammenti del presente, l’orizzonte di una fraternità riconciliata.
Abbiamo intervistato Mons. Fumagalli che ha accolto con generosità le domande più complesse.
Lei propone di leggere Nostra aetate non solo come “sul nostro tempo”, ma come “sulla nostra società contemporanea”. Che cosa cambia, concretamente, se la rileggiamo così nel 2025?
A me pare che la chiave sia in una traduzione dinamica del testo. L’espressione latina “aetate” va letta non soltanto come “il tempo in cui fu scritto il documento”, ma come ogni momento. Coloro che colla-borarono alla stesura della dichiarazione avevano il desiderio implicito di parlare al passato, al presente e al futuro insieme. Del resto, il termine “aetas” è stato utilizzato dai Padri della Chiesa con una continuità semantica rispetto all’olam ebraico.
Nel suo saggio collega Nostra aetate alla Shoah e alla nascita dello Stato di Israele. Perché, secondo lei, quella dichiarazione conciliare è figlia diretta di questi due eventi?
Due figure fondamentali nella genesi di Nostra aetate incarnano proprio questa doppia eredità: la Shoah e la rinascita ebraica. La prima è Jules Isaac, professore ebreo francese che perse gran parte della sua famiglia durante la persecuzione nazista. Dopo essere sopravvissuto, si dedicò con passione alla memoria e alla lotta contro l’antisemitismo. Fu lui a redigere un dossier che consegnò personalmente a Papa Giovanni XXIII nel 1960, grazie anche alla mediazione di Maria Vingiani, promotrice instancabile del dialogo. Giovanni XXIII mise Isaac in contatto con il cardinale tedesco Augustin Bea, già impegnato contro l’antisemitismo e segnato, come tedesco, dalla tragedia della Shoah. Accanto a loro, altri protagonisti: altri ebrei, ebrei convertiti e il cardinale Johannes Willebrands, che nei Paesi Bassi era stato testimone dell’orrore della Shoah.
Quanto allo Stato di Israele, Willebrands, negli Stati Uniti, ebbe un incontro importante con Rav Joseph Soloveitchik (Rav Soloveitchik z’l fu un grandissimo maestro che conciliò l’osservanza della Torah con il sionismo, ndr).
Più tardi, nel 1993-1994, si giunse alla piena normalizzazione dei rapporti diplomatici, sotto Giovanni Paolo II, con cui collaborai direttamente per sette anni come segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Per lui, il popolo ebraico e lo Stato di Israele erano profondamente uniti, legati alla “terra dei padri”. Oggettivamente, la nascita dello Stato ebraico segnò un punto di svolta: pose la questione del significato della terra, della sovranità e della vita civile ebraica nel cuore stesso della nostra epoca, nella nostra aetate, appunto. Se il documento conciliare richiama le radici di Abramo e dei Padri, e cita Sofonia (Tsefanyah 3,9 ndr) con la speranza di un futuro di unità, “lo serviranno sotto uno stesso giogo”, allora possiamo dire che Israele rappresenta oggi, nel presente, quel ponte tra il passato e la visione messianica del futuro.
Nel suo saggio lei richiama il pensiero del cardinale Walter Kasper, secondo cui, alla luce di Romani 11:29 “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili”, ebrei e cristiani non sarebbero due popoli separati ma un solo popolo, “senza confusione e senza separazione”, riecheggiando la formula del Concilio di Calcedonia. Come spiegherebbe questa idea di “un solo popolo” ai lettori di Mosaico – Bet Magazine?
L’idea di una profonda unità tra ebraismo e cristianesimo è stata esplorata anche da Martin Buber che parlava di zwei Glaubensweisen, due modi diversi di credere, ma riconducibili a una stessa origine, a un’unica radice. Anche Franz Rosenzweig, nella sua Stella della redenzione, si confrontò con questo problema: fu tentato più volte di convertirsi al cristianesimo, come accadeva a molti ebrei negli anni ’20 e ’30, ma alla fine trovò nella sua identità ebraica una forza spirituale profonda. Il suo rispetto per la fede cristiana non lo portò a rinunciare alla solidità e alla speranza della sua fede ebraica.
Nel mondo cattolico, questo tema ha generato un dibattito intenso: la missione della Chiesa verso il popolo ebraico, intesa come proposta di inserimento nella Chiesa, ha ancora senso? Già nel 1977-78, il teologo Tommaso Federici presentò un rapporto in cui affermava che la missione verso il popolo ebraico non poteva più essere intesa come conversione ma come vocazione condivisa: due cammini distinti ma concorrenti nel portare la luce della rivelazione divina all’umanità. Questa posizione è stata ufficialmente recepita dalla Chiesa nel 2015, nel documento vaticano che commemorava il 50° anni-versario di Nostra aetate: la Chiesa ha escluso ogni missione istituzionale rivolta alla conversione degli ebrei.
Personalmente, trovo che si possa anche usare un’altra immagine: quella di due fratelli gemelli, Yaakov (Israel) ed Esav. Entrambi della stirpe di Abramo e, come ricorda Rav Jonathan Sacks, destinati alla riconciliazione. Non a caso, Nostra aetate contiene Sofonia 3,9, “lo serviranno sotto un medesimo giogo”, un versetto che anche Maimonide, nelle Hilkhot Melakhim, cita per descrivere l’era messianica come un tempo di unificazione etica e spirituale del mondo.
In molte parrocchie, ma non solo, si percepisce ancora oggi uno scarto tra il magistero e la sensibilità diffusa. Penso, ad esempio, al presepe di Ponsacco con la scritta “no al terrorismo di Hamas e di Israele”, o al presepe in Vaticano con una kefiah palestinese avvolta intorno alla culla. Dal suo punto di vista, Nostra aetate ha davvero permeato tutta la Chiesa?
Nostra aetate è un documento fondamentale che ha scosso profondamente la Chiesa, non solo nel rapporto con l’ebraismo, ma anche con altre religioni. Ha avuto un effetto dirompente sul concetto di libertà religiosa e in altri aspetti. Tuttavia, la sua ricezione non è stata uniforme nel mondo, perché dipende molto dai singoli episcopati, dalle condizioni storiche e da due millenni di antigiudaismo cristiano. Ci sono stati fatti importantissimi, penso a Giovanni Paolo II che ha inserito nel Kotel un biglietto con la richiesta di perdono. Cito anche la teshuvà fatta dal Cardinale Martini. Però, non basta che la te-shuvà sia fatta da singole figure: serve un movimento più ampio. E questo è ancora un cammino aperto.
Cosa dice, a tal proposito, riguardo le Chiese orientali? Penso, ad esempio, alla Siria, ma non solo.
Il contesto dell’Oriente cristiano è quello in cui, duemila anni fa, si è forgiato l’antigiudaismo. Ne abbiamo testimonianza nei Padri della Chiesa orientale; non in tutti, però. Penso a Efrem il Siro, che dimostra una profonda dipendenza dalla tradizione ebraica. È sempre stato possibile, anche nei secoli più duri, sottrarsi all’antigiudaismo, ma è rimasto un fatto minoritario. La preponderanza di un’antica ostilità permane tuttora. Lo si nota, ad esempio, in certi ambienti dove, nella Bibbia in arabo, il nome “Israele” non viene tradotto come “Isra’il”, ma si preferisce usare “Yaqūb” (Giacobbe). Questo per evitare ogni saldatura tra l’Israele biblico e lo Stato di Israele odierno. È un dramma costante, e lo si può affrontare solo con pazienza, passo dopo passo. A maggior ragione dopo il pogrom del 7 ottobre e la guerra che ne è seguita: il numero elevato di vittime civili a Gaza, tra cui donne, anziani e bambini, ha complicato ancora di più la possibilità di esprimere solidarietà verso Israele nel Medio Oriente ma anche in altre aree del mondo, come il Sudafrica o persino in Europa, dove si sono registrate molte ostilità e reazioni di totale incomprensione verso Israele come popolo, come fede, e come espressione di una solidarietà umana, spirituale, religiosa, sociale e politica.
Nel suo saggio lei scrive che la speranza messianica condivisa, pur declinata in modo diverso da ebrei e cristiani, dovrebbe unirci nell’azione per la pace, nel “preparare la via al regno messianico”. Ma nella cronaca contemporanea, nei telegiornali, il termine “messianico” è spesso usato come sinonimo di estremismo. Cosa ne pensa?
Le vie del Messia sono vie di pace. È da lì che dobbiamo partire, per costruire la pace a partire da Ge-rusalemme, nella terra della santità. Proprio dove è più difficile. Ma non solo lì: anche in Ucraina, in Sudan, in America Latina, in tutte le aree del mondo attraversate da conflitti laceranti. Nostra aetate ha aperto uno spazio di fraternità possibile, partendo da Abramo, Isacco e Giacobbe. Sessant’anni fa si esitava a parlare apertamente di “Chiesa e Israele”: basti pensare che la Commissione vaticana si chiama ancora “per i rapporti religiosi tra Chiesa e ebraismo”, usando una formula astratta. Credo che oggi sia maturo il tempo per aggiornare questa definizione e parlare esplicitamente di “rapporti tra Chiesa e Israele”. Sarebbe uno dei frutti contemporanei di Nostra aetate.
Ricordo un passaggio molto significativo di papa Benedetto XVI, in un dialogo con Arie Folger. Alla domanda se lo Stato di Israele possa avere un significato anche per i cristiani, rispose che, pur non rientrando nella teologia sistematica della Chiesa, Israele può senz’altro avere un significato religioso.
C’è un incontro o un’esperienza vissuta che per lei è stata come una “Nostra aetate personale”?
In realtà, non saprei indicare un momento preciso. Per me è tutta la vita. Sento che ciò che ho vissuto mi spinge così fortemente in avanti che mi riesce difficile soffermarmi sul passato. Detto questo, ci sono certamente episodi che mi porto nel cuore. Vede quella fotografia lì? (indica una foto appesa nello studio, ndr) È con Papa Giovanni Paolo II. Quel giorno avevo appena accompagnato da lui un gruppo di ebrei americani. Al momento del congedo, il Papa si è avvicinato e mi ha detto: “Portami ancora tanti di questi, come hai fatto oggi”. Un altro momento è stato quando sono andato sulla tomba di Abramo a Hebron o nella grotta di Elia sul monte Sinai.

Il Trio NefEsh in Vaticano nell’anniversario di Nostra Aetate
Il 28 ottobre 2025 è stato celebrato il 60° anniversario di Nostra Aetate, l’innovativa dichiarazione del Concilio Vaticano II sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane. Per l’occasione si è tenuto, nell’Aula Paolo VI del Vaticano, un evento speciale intitolato “Camminare insieme nella speranza”; nel programma, anche il concerto del NefEsh Trio, di Manuel Buda, Daniele Parziani e Davide Tedesco. “È stato un onore grandissimo – dice Manuel Buda – venire chiamato a intervenire coi NefEsh in un’occasione così bella e importante. L’anno prossimo il trio festeggia vent’anni di attività e non c’era modo migliore per avvicinarci a questo compleanno! Certo, un invito come questo ti mette addosso anche una grande responsabilità: stai andando a rappresentare la musica, anzi le musiche ebraiche, in un incontro interreligioso di portata mondiale. Ma siamo saliti su quel palco con grande serenità perché sapevamo di condividere musica che sentiamo profondamente, e quando diventi tu stesso strumento della musica tutto è facile”.



