«Mai più il silenzio, mai più l’indifferenza». Con queste parole, ripetute instancabilmente nelle scuole e nelle piazze, Vera Vigevani Jarach ha lasciato il suo testamento morale. Scomparsa a Buenos Aires a 97 anni, era nata a Milano nel 1928 in una famiglia ebraica. Sopravvissuta alle leggi razziali, testimone della Shoah e madre di una desaparecida, ha trasformato il dolore in impegno civile, la tragedia in memoria condivisa.
Dall’Italia all’Argentina
Vera aveva appena undici anni quando, nel 1939, lasciò Milano per fuggire alle persecuzioni. Dal porto di Genova partì con la famiglia verso l’Argentina. «Viva l’Italia!», gridò suo padre dal ponte della nave, mentre alle sue spalle si chiudeva un mondo ormai ostile. A Buenos Aires sarebbe diventata giornalista culturale per l’Ansa, moglie, madre. In Italia, invece, rimase il nonno Ettore Felice Camerino, che rifiutò di emigrare: deportato ad Auschwitz, vi morì nello stesso convoglio in cui fu deportata anche Liliana Segre.
Il dolore indicibile di una madre
Il 25 giugno 1976, la figlia di Vera, Franca, diciotto anni appena, fu sequestrata dalla dittatura argentina. Un mese dopo, drogata, venne gettata viva nell’Atlantico da uno dei voli della morte organizzati dalla giunta di Videla. Come lei, altre trentamila persone furono inghiottite dal nulla.
Da quel giorno, Vera non si fermò più: prima nella ricerca disperata, poi nella lotta per la verità e la giustizia. Divenne una delle Madri di Plaza de Mayo, presenza instancabile sotto i fazzoletti bianchi che ricordano i figli perduti.
«Partigiana della memoria»
Per decenni si è definita una “militante della memoria”. Negli ultimi anni scelse un’espressione ancora più netta: «partigiana della memoria», perché «prendo parte». E davvero lo fece: anche ultranovantenne continuava a scendere in piazza, a testimoniare, a trasformare la propria ferita in parola collettiva.
«Il sorriso di Franca continuerà a essere la bandiera di molti giovani», ha scritto Taty Almeida, presidente delle Madri di Plaza de Mayo, nel messaggio di addio.
Una vita di piccoli gesti e grandi battaglie
Accanto all’impegno politico e civile, Vera manteneva una dolcezza concreta e quotidiana: portava sempre con sé un sacchetto di monetine per i poveri, convinta che non si dovesse mai dire no a chi tende la mano. Nelle scuole, dove incontrava migliaia di studenti, amava ripetere: «Le tragedie si ripetono, ma si può restare ottimisti con la volontà, la speranza e soprattutto con qualcosa in più: mai più il silenzio».
L’eredità
La sua vita è stata un ponte tra due catastrofi del Novecento: la Shoah e i desaparecidos. Vera sapeva che la memoria non è neutra, ma azione. «Non lasciarsi attrarre dai fanatismi, che fanno perdere la ragione», ammoniva.
Dolce e tenace, idealista e concreta, ha trasformato il dolore in voce collettiva. Se la sua esistenza non lascia tombe su cui piangere — né per il nonno ad Auschwitz né per la figlia nell’Atlantico — lascia però una consegna nitida: prendere parte, non voltarsi dall’altra parte.