Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Siamo parte di una storia che è iniziata molto prima della nostra nascita e che continuerà molto dopo che non ci saremo più, e la domanda che tutti noi dobbiamo porci è: continueremo questa storia? Le speranze di cento generazioni dei nostri antenati riposano sulla nostra volontà di farlo Ognuno di noi è un attore chiave in questa storia. Possiamo viverla. Possiamo abbandonarla. Ma è una scelta che non possiamo evitare e che ha conseguenze immense.
Negli ultimi giorni della sua vita, Mosè rinnova il patto tra Dio e Israele. L’intero libro di Devarim è stato un resoconto del patto – come è nato, quali sono i suoi termini e le sue condizioni, perché è il nucleo dell’identità di Israele come am kadosh (popolo santo) e così via. Ora arriva il momento del rinnovo stesso, una rivendicazione nazionale ai termini della propria esistenza come popolo santo sotto la sovranità dello stesso Dio.
Mosè, tuttavia, fa attenzione a non limitare le sue parole a coloro che sono effettivamente presenti. Sul punto di morire, vuole assicurarsi che nessuna generazione futura possa dire: “Mosè ha fatto un patto con i nostri antenati, ma non con noi. Noi non abbiamo dato il nostro consenso. Non siamo vincolati.” Per evitare questo, egli pronuncia queste parole: ״Non è solo con voi che faccio questo patto giurato, ma con chiunque stia qui con noi oggi davanti al Signore nostro Dio, e con chiunque non sia qui con noi oggi.” (Deuteronomio 29:13-14)
Come sottolineano i commentatori, la frase “Chiunque non è qui” non può riferirsi agli Israeliti vivi al tempo che si trovavano semplicemente in un altro luogo, si riferisce alle generazioni che devono ancora nascere. Questo patto vincola tutti gli ebrei da quel giorno fino a oggi. Come dice il Talmud, siamo tutti mushba ve-omed meHar Sinai, ovvero “vincolati da un giuramento che persiste dal Sinai” (Yoma 73b, Nedarim 8a). Accettando di essere il popolo di Dio, i nostri antenati ci hanno impegnati tutti.
Da qui uno dei fatti fondamentali dell’ebraismo. Ad eccezione dei convertiti, non scegliamo di essere ebrei. Nasciamo ebrei. Diventiamo legalmente adulti, soggetti ai comandamenti e responsabili delle nostre azioni, all’età di dodici anni per le ragazze e tredici per i ragazzi. Facciamo parte del patto fin dalla nascita. Una bat o un bar mitzvah non è una “conferma.” Non comporta alcuna accettazione volontaria dell’identità ebraica. Quella scelta è avvenuta più di tremila anni fa, quando Mosè disse: “Non è solo con voi che faccio questo patto giurato, ma con… chiunque non sia qui con noi oggi,” intendendo tutte le generazioni future, comprese noi.
Ma come può essere così? Sicuramente un principio fondamentale dell’ebraismo è che non c’è obbligo senza consenso. Come possiamo essere vincolati da un accordo di cui non siamo stati parti? Come possiamo essere soggetti a un patto sulla base di una decisione presa molto tempo fa e lontano da noi dai nostri antenati?
Gli Studiosi, del resto, sollevarono una domanda simile riguardo alla Generazione del Deserto ai tempi di Mosè, che era effettivamente presente e aveva dato il proprio consenso. Il Talmud suggerisce che non erano del tutto liberi di dire ‘No.’ “Il Santo, benedetto sia, sospese la montagna sopra di loro come una botte e disse: Se dite ‘Sì’, andrà tutto bene, ma se dite ‘No’, questo sarà il vostro luogo di sepoltura.” (Shabbat 88b)
Su questo, Rav Acha bar Yaakov disse: “Questo costituisce una sfida fondamentale alla legittimità del patto.” Il Talmud risponde che, anche se l’accordo potrebbe non essere stato del tutto libero al tempo, gli ebrei affermarono il loro consenso volontariamente ai giorni di Assuero, come suggerisce il Libro di Ester.
Non è ora il luogo per discutere questo passaggio in particolare, ma il punto essenziale è chiaro. Gli Studiosi credevano fermamente che un accordo dovesse essere fatto liberamente per essere vincolante. Eppure non abbiamo scelto di essere ebrei. La maggior parte di noi è nata ebrea. Non eravamo presenti ai tempi di Mosè quando l’accordo fu fatto. Non esistevamo ancora. Come possiamo allora essere vincolati dal patto?
Questa non è una questione da poco. È la questione su cui ruotano tutte le altre. Come può l’identità ebraica essere trasmessa da genitore a figlio? Se l’identità ebraica fosse solo razziale o etnica, potremmo capirla. Ereditiamo molte cose dai nostri genitori – più ovviamente i nostri geni. Ma essere ebrei non è una condizione genetica, è un insieme di obblighi religiosi. Esiste un principio halachico: zachin le-adam shelo be-fanav, “Puoi conferire un beneficio su qualcun altro senza il suo consenso” (Ketubot 11a). E sebbene sia senza dubbio un beneficio essere ebreo, è anche in qualche modo un onere, una limitazione della nostra gamma di scelte legittime, con gravi conseguenze se trasgrediamo. Se non fossimo stati ebrei, avremmo potuto lavorare di Shabbat, mangiare cibo non kosher, e così via. Puoi conferire un beneficio a qualcuno senza il suo consenso, ma non un onere.
In breve, questa è la questione delle questioni dell’identità ebraica. Come possiamo essere vincolati dalla legge ebraica, senza la nostra scelta, semplicemente perché i nostri antenati hanno deciso per noi?
Nel mio libro Radical Then, Radical Now ho sottolineato quanto sia affascinante rintracciare esattamente quando e dove questa domanda è stata posta. Nonostante tutto il resto dipenda da essa, non fu presentata spesso. Per la maggior parte, gli ebrei non si chiedevano: ‘Perché essere ebrei?’ La risposta era ovvia. I miei genitori sono ebrei. I miei nonni erano ebrei. Quindi io sono ebreo. L’identità è qualcosa che la maggior parte delle persone, nella maggior parte delle epoche, dà per scontato.
Diventò però una questione durante l’esilio babilonese. Il profeta Ezechiele disse: “Ciò che è nella vostra mente non accadrà mai – il pensiero: ‘Siamo come le nazioni, come le tribù dei paesi, e adoriamo legno e pietra’” (Ezechiele 20:32). Questo è il primo riferimento agli ebrei che cercavano attivamente di abbandonare la propria identità.
Accadde di nuovo in epoca rabbinica. Sappiamo che nel II secolo a.e.v. c’erano ebrei che si ellenizzarono, cercando di diventare greci piuttosto che virtuosi osservanti. Altri, sotto il dominio romano, cercarono di diventare romani. Alcuni persino si sottoposero a un’operazione nota come epispasm per annullare gli effetti della circoncisione (in ebraico erano conosciuti come meshuchim) per nascondere il fatto che erano ebrei.
La terza volta fu in Spagna nel XV secolo. Qui troviamo due commentatori biblici, Rabbi Isaac Arama e Rabbi Isaac Abarbanel, che sollevano proprio la questione che abbiamo posto su come il patto possa vincolare gli ebrei oggi. La ragione per cui la pongono, mentre i commentatori precedenti non lo fecero, è che nel loro tempo – tra il 1391 e il 1492 – vi era una pressione enorme sugli ebrei spagnoli a convertirsi al cristianesimo, e fino a un terzo potrebbe averlo fatto (erano noti in ebraico come anusim, in spagnolo come conversos, e in modo dispregiativo come marranos, “porci”). La domanda “Perché restare ebrei?” era reale.
Le risposte fornite erano diverse a seconda dei periodi. La risposta di Ezechiele era schietta: «Com’è vero che io vivo, dice il Signore Dio, con mano potente e braccio disteso, con ira riversata, io regnerò su di voi» (Ez 20,33). In altre parole, gli ebrei potevano anche cercare di sfuggire al loro destino, ma avrebbero fallito. Anche contro la loro volontà, sarebbero sempre stati conosciuti come ebrei. Questo, tragicamente, è ciò che accadde durante i due grandi periodi di assimilazione, nella Spagna del XV secolo e nell’Europa del XIX e dell’inizio del XX secolo. In entrambi i casi, l’antisemitismo razziale persistette e gli ebrei continuarono a essere perseguitati.
I Saggi risposero alla domanda in modo mistico. Dissero che anche le anime degli ebrei non ancora nati erano presenti al Sinai e ratificarono l’alleanza (Esodo Rabbah 28:6). In altre parole, ogni ebreo diede il proprio consenso ai tempi di Mosè, anche se non era ancora nato. Demistificando questo concetto, forse i Saggi intendevano dire che nel profondo del loro cuore, anche gli ebrei più assimilati sapevano di essere ebrei. Questo sembra essere stato il caso di personaggi pubblici come Heinrich Heine e Benjamin Disraeli, che vivevano come cristiani ma spesso scrivevano e pensavano come ebrei.
I commentatori spagnoli del XV secolo trovarono questa risposta problematica. Come disse Arama, ognuno di noi è sia corpo che anima. Come può quindi essere sufficiente dire che la nostra anima era presente al Sinai? Come può l’anima obbligare il corpo? Naturalmente l’anima accetta il patto. Spiritualmente, essere ebrei è un privilegio, e si può conferire un privilegio a qualcuno senza il suo consenso. Ma per il corpo, l’alleanza è un peso. Comporta ogni sorta di restrizione ai piaceri fisici. Pertanto, se le anime delle generazioni future fossero presenti ma non i loro corpi, ciò non costituirebbe un consenso.
Radical Then, Radical Now è la mia risposta a questa domanda. Ma forse ce n’è una più semplice. Non tutti gli obblighi che ci vincolano sono quelli a cui abbiamo liberamente dato il nostro assenso. Ci sono obblighi che derivano dalla nascita. L’esempio classico è quello del principe ereditario o della principessa ereditaria. Essere l’erede al trono comporta una serie di doveri e una vita al servizio degli altri. È possibile trascurare questi doveri. In circostanze estreme è persino possibile che un monarca abdichi. Ma nessuno può scegliere di diventare erede al trono. È un destino, una sorte che deriva dalla nascita.
Il popolo di cui Dio stesso disse: «Figlio mio, mio primogenito, Israele» (Esodo 4,22) sa di essere di sangue reale. Questo può essere un privilegio. Può essere un peso. Quasi certamente è entrambe le cose. È una peculiare illusione post-illuminista pensare che gli unisci aspetti significativi di noi siano quelli che scegliamo. La verità è che non optiamo alcuni dei fatti più importanti che ci riguardano. Non abbiamo scelto di nascere. Non abbiamo scelto i nostri genitori. Non abbiamo scelto il momento e il luogo della nostra nascita. Eppure, ciascuno di questi aspetti influenza chi siamo e ciò che siamo chiamati a fare.
Siamo parte di una storia che è iniziata molto prima della nostra nascita e che continuerà molto dopo che non ci saremo più, e la domanda che tutti noi dobbiamo porci è: continueremo questa storia? Le speranze di cento generazioni dei nostri antenati riposano sulla nostra volontà di farlo. Nel profondo della nostra memoria collettiva continuano a risuonare le parole di Mosè: «Non è solo con voi che sto stringendo questo patto solenne, ma con… chiunque non sia qui con noi oggi». Ognuno di noi è un attore chiave in questa storia. Possiamo viverla. Possiamo abbandonarla. Ma è una scelta che non possiamo evitare e che ha conseguenze immense. Il futuro dell’alleanza dipende da noi.
Scritto da Rabbi Sacks nel 2012