Yerushalmit Meduberet: il ponte delle parole per le donne ebree e palestinesi

Israele

di Anna Balestrieri

Nel cuore di una Gerusalemme divisa, c’è un progetto che prova a ricucire. Non con slogan politici, né con grandi dichiarazioni, ma con qualcosa di più semplice e radicale: una conversazione. Yerushalmit Meduberet — che gioca sul doppio significato di “yerushalmit”, gerosolimitana e “meduberet”, parlata, alludendo alla differenza sostanziale tra l’arabo letterario e quello parlato (si parla infatti di aravit sifrutit e aravit meduberet) — è un’iniziativa nata dal basso per creare un ponte umano e linguistico tra donne ebree e palestinesi. Un ponte che si costruisce parola per parola, incontro dopo incontro, e che restituisce dignità, identità e possibilità attraverso la lingua. Un’iniziativa che è diventata, per molte, una luce settimanale nel buio di questi mesi. Di seguito, la testimonianza di una delle fondatrici, Lior Urian.

 

Raccontami un po’ di te.

Sono cresciuta a Tel Aviv, in un ambiente estremamente omogeneo. Non ho avuto contatti con una persona araba per i primi vent’anni della mia vita. A dodici anni, a scuola, ci fu data la possibilità di scegliere una terza lingua tra francese e arabo. Per me fu ovvio: l’arabo? Quando mai mi servirà?

Ero una bambina durante la guerra del Golfo, avevo cinque anni. Poi è arrivata la Seconda Intifada. Autobus esplosi, centri commerciali colpiti. Per me la lingua araba era sinonimo di morte, di pericolo. L’associavo solo alla paura, e alla figura del lavoratore nei servizi più umili. È difficile e doloroso ammetterlo oggi, ma era così.

Solo quando ho iniziato a studiare sociologia e Medio Oriente all’università ho cominciato a mettere in discussione quella visione. Ho studiato arabo letterario per un anno intero, con impegno e dedizione, ma quando mi sono trovata davanti a una persona, non sapevo nemmeno come salutarla. Mi sono resa conto che ciò che avevo imparato non mi aiutava a comunicare. Ed è allora che ho conosciuto Manar.
Lei studiava ebraico in un programma propedeutico, la mechina, con altri studenti arabi. Noi, studenti ebrei, studiavamo arabo. Abbiamo iniziato ad aiutarci con i compiti al bar dell’università. Ci siamo trovate – lei con il suo ebraico stentato, io con il mio arabo imbarazzato – a studiare insieme. È nata una vera amicizia. Stesse risate, stessi valori, vite parallele in una stessa città, ma su pianeti diversi. Da lei ho imparato tantissimo su Gerusalemme Est. E un giorno ci siamo dette: e se lo proponessimo ad altre donne? Abbiamo pubblicato due post, uno a Gerusalemme Est e uno a Ovest. In 24 ore si sono iscritte 250 donne.

Come funziona Yerushalmit Meduberet?

Abbiamo iniziato con uno scambio linguistico settimanale. Donne sedute in piccoli gruppi, con carte che propongono 18 temi di conversazione – amore, cibo, politica, religione. C’è un turno in ebraico e uno in arabo. Si pratica la lingua viva, si impara a conoscersi. Ognuna è studentessa e insegnante allo stesso tempo. C’è spazio per entrambe le culture e identità. Non si tratta solo di grammatica: è comunicazione reale.

Oggi siamo oltre tremila. Donne musulmane, ebree, cristiane. Religiose, laiche, anche qualche haredì. Di tutte le età, idee politiche, realtà sociali. E oggi, 16 di noi guidano questo progetto insieme, da entrambe le parti della città.

In che modo il progetto si è allargato?

Ci siamo allargate attraverso tour, eventi stagionali, yoga, cucina. Piattaforme online e gruppi sportivi. Abbiamo persino creato un beit midrash femminile dove si studiano insieme Islam ed Ebraismo. Speriamo a breve di includere anche il cristianesimo. Così affrontiamo anche temi complessi: narrazioni opposte, attualità, politica. Non per accordarsi – ma per imparare ad ascoltare.

Quali sono le sfide specifiche per le donne palestinesi?

Uno dei nostri progetti più forti è nato nel 2020, durante il Covid: il progetto occupazionale. Il 70% delle donne di Gerusalemme Est è disoccupata, nonostante siano spesso più istruite delle altre palestinesi in Israele. Mancanza di rete, problemi con il riconoscimento dei titoli di studio, barriere linguistiche, culturali. Abbiamo deciso di attivare la comunità per colmare il divario. Oggi questo progetto coinvolge 1.300 donne palestinesi in un percorso di formazione, empowerment, networking e supporto reciproco.

Cosa significa, per una donna palestinese, imparare l’ebraico? E per le donne ebree?

Per le donne palestinesi, imparare l’ebraico significa molto più che imparare una lingua: significa poter andare dal medico, leggere una lettera della municipalità, salire su un autobus senza paura, essere autonome. Anche le donne ebree hanno motivazioni diverse: alcune vogliono riscoprire la lingua dei nonni, altre sono attiviste, altre ancora cercano strumenti per sentirsi più sicure. Dopo il 7 ottobre, molte hanno sentito il bisogno di capire chi c’è dall’altra parte del muro.

In che modo l’iniziativa promuove l’empowerment e il benessere delle donne?

Il cuore del progetto è il legame umano. Le donne che partecipano si sentono parte di qualcosa, non sono più sole. Il semplice atto di incontrarsi, guardarsi negli occhi e parlare crea un senso di sicurezza e appartenenza. Per molte è la prima occasione per uscire dalla propria casa e partecipare attivamente a una comunità.

Questi incontri vanno oltre l’apprendimento linguistico. Si organizzano attività guidate da donne della comunità, come corsi di danza del ventre, che partiranno il mese prossimo. Questi momenti offrono spazi in cui le donne possono esercitare l’ebraico, ma anche prendersi cura del proprio corpo e stare insieme in modo leggero e gioioso. Si risponde così a un bisogno reale e spesso inascoltato, soprattutto nelle comunità più conservatrici: quello di muoversi, di respirare, di condividere momenti informali fuori dallo spazio domestico.

Accanto agli incontri organizzati, esistono piattaforme online che permettono alle partecipanti di lanciare incontri spontanei, sia su Zoom che in presenza. Circa 450 donne partecipano regolarmente a questo circuito informale. Ogni due giorni, c’è sempre qualcuno che chiede “chi è libera per una Zoom?”: è così che si creano connessioni più strette, si trovano partner con cui praticare l’ebraico in modo continuativo, e si rafforza il senso di rete, di sorellanza.

Qual è il vostro messaggio e quali cambiamenti avete visto nelle partecipanti?

Diciamo spesso che non impariamo solo una lingua, ma impariamo a comunicare. Impariamo la lingua del dialogo. In un certo senso, questo progetto insegna anche una cultura della conversazione, del confronto rispettoso. Oggi la società israeliana appare bloccata, rigida, sempre più incapace di ascoltare l’altro. La cultura del dibattito è diventata una gara: ognuno parla solo per rafforzare le proprie convinzioni, senza davvero aprirsi all’ascolto.

Noi proviamo a trasformare questo schema. Creiamo spazi in cui si possa semplicemente sedersi e ascoltare, anche quando fa male, anche quando tocca corde profonde, delicate, a volte destabilizzanti. Questo non vale solo tra ebrei e palestinesi: vale anche tra persone della stessa società che la pensano diversamente. Imparare a restare nella stessa stanza senza trasformare tutto in uno scontro è già un atto rivoluzionario, una pratica dimenticata nell’Israele di oggi.

Le interazioni che vediamo sono straordinarie. Donne di tutte le opinioni politiche, sensibilità e provenienze si incontrano e iniziano ad ascoltarsi. Non chiediamo a nessuna di cambiare idea, né di convincere le altre. L’obiettivo è costruire una comprensione più complessa della realtà, smettere di vedere tutto in bianco e nero. E quando questo accade — quando una donna esce dalla propria zona di comfort per ascoltare il vissuto dell’altra — sappiamo che qualcosa si è mosso.

Per me personalmente, tutto è iniziato con Manar. Ricordo quando mi disse di aver paura a prendere il treno per via della lingua e della sua identità. Rimasi scioccata. Pensavo: “Come può avere paura? Nessuno le farà del male”. Ma capii subito quanto fossi ignorante. Non si trattava di giusto o sbagliato, ma di sentire la sua paura, capire cosa la provocava. Da allora ho imparato che dietro ogni storia, ogni opinione, c’è una persona. E se vogliamo davvero cambiare qualcosa, dobbiamo partire da lì.

Non siamo un movimento politico. Non diciamo “facciamo la pace”. Diciamo: impariamo a comunicare. È già tanto.

Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre?

Il 7 ottobre è stato un colpo durissimo. Io ho familiari vicino a Gaza. Suzanne ha metà famiglia dentro Gaza. L’indomani dell’attacco abbiamo organizzato un incontro su Zoom per parlarne tutte quante. Abbiamo pianto assieme. Ci siamo guardate in faccia, ci siamo raccontate il dolore. Non ci siamo fermate neanche un giorno. Costruire ponti oggi è più importante che mai.

Come si può aiutare concretamente?

In questo periodo la filantropia guarda altrove. Ma se vogliamo davvero prepararci per “il giorno dopo”, è questo il lavoro che serve: creare spazi dove possiamo guardarci, ascoltarci, riconoscerci.

Quasi tutto ciò che facciamo è gestito da volontarie. Ogni contributo, in tempo, idee o risorse, è benvenuto. Alcune insegnano inglese da remoto per rafforzare il posizionamento nel mondo del lavoro, altre offrono formazione, altri ancora sostengono economicamente. Puoi donare qui:
https://www.jgive.com/new/en/usd/donation-targets/141291

 

Che ruolo può giocare la lingua nella creazione della convivenza?

Noi preferiamo parlare di “società condivisa”. La lingua non è solo un mezzo di comunicazione: è identità, è dignità. Oggi meno del 10% degli ebrei israeliani sa sostenere una conversazione in arabo, e solo il 4% dei palestinesi di Gerusalemme parla un ebraico fluente. Senza una lingua comune, dove possiamo andare?

La lingua è la chiave per entrare nell’universo dell’altro, per comprenderne i vissuti, i timori, i sogni. Quando viviamo in realtà completamente separate, esposte a media diversi, circoli sociali chiusi e narrazioni opposte, perdiamo la capacità di capirci davvero. E allora iniziamo a temere o demonizzare chi è diverso. Vediamo gli altri come cattivi. Alcuni lo saranno anche, ma se vogliamo costruire un futuro condiviso, dobbiamo prima capire come l’altro vede il mondo. Solo così possiamo iniziare a cercare soluzioni reali.

In questo senso, la lingua diventa un primo passo fondamentale: imparare l’arabo o l’ebraico non significa solo imparare parole, ma accedere alla visione dell’altro, aprire uno spiraglio verso una realtà che prima ignoravamo. È la base per costruire ponti veri.

In un paese dove solo il 10% degli ebrei israeliani parla arabo, scegliere di imparare la lingua dell’altro è un atto di riconoscimento e di rispetto. La lingua è identità, è accesso, è dignità. Ma è anche memoria, ascolto, incontro. Il dolore, da qualunque parte venga, è dolore. E da questa realtà condivisa bisogna partire: non per cancellare le differenze, ma per conoscerle. E per dare loro voce.

 

Una storia di cambiamento: la voce di Suzanne

In un’intervista sul canale YouTube “HaTrampistim” (gli autostoppisti), Suzanne, oggi a guida della comunità accanto a Lior, racconta la propria esperienza.

Cresciuta a Gerusalemme Est, per anni ha percepito Gerusalemme Ovest come una realtà ostile, ridotta nella sua immaginazione a un’unica, minacciosa “via Giaffa” – così la chiamano molti residenti dell’Est –, luogo simbolico e spaventoso, come la porta di Damasco può esserlo per chi vive all’Ovest.

Sposata a vent’anni, Suzanne si è trovata intrappolata in una relazione violenta. Decidere di chiedere il divorzio è stato un atto di rottura: lo ha fatto senza alcun appoggio economico o familiare, trovandosi sola a dover mantenere tre figli.

In quel momento difficile, ha visto su Facebook un annuncio per uno scambio linguistico gratuito. Ha cominciato a studiare ebraico a Yerushalmit Meduberet, giorno dopo giorno. Oggi lo parla fluentemente.

Quella lingua è diventata uno strumento di autonomia, di accesso al mondo del lavoro e di relazione. Ma è anche diventata un ponte: verso l’altra metà della città, verso altre donne, verso la possibilità di trasformare la paura in presenza, la dipendenza in libertà. Oggi è insegnante di ebraico, ha conseguito una laurea magistrale, guida il progetto con forza e umanità.

Suzanne non solo ha ricostruito la propria vita, ma contribuisce a rafforzare una rete di solidarietà e crescita che coinvolge centinaia di donne.