Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Ciò che rende gli ebrei “un popolo che dimora da solo, non annoverato fra le nazioni” è che la loro nazione non si fonda su geografia, politica o etnia, ma su una vocazione religiosa: quella di essere partner dell’alleanza con Dio, chiamati ad essere un esempio vivente di popolo tra i popoli, distinti per la loro fede e per il loro stile di vita.
Balak e l’asina (dipinto di Rembrandt)
L’anno è il 1933. Due ebrei siedono in un caffè viennese, leggendo le notizie. Uno sta leggendo il giornale ebraico locale, l’altro il notoriamente antisemita Der Stürmer.
«Come puoi leggere quella spazzatura ripugnante?» dice il primo.
Il secondo sorride. «Cosa dice il tuo giornale? Fammi indovinare: “Gli ebrei si stanno assimilando.” “Gli ebrei stanno litigando.” “Gli ebrei stanno scomparendo.” Ora lascia che ti dica cosa dice il mio giornale: “Gli ebrei controllano le banche.” “Gli ebrei controllano i media.” “Gli ebrei controllano l’Austria.” “Gli ebrei controllano il mondo.” Amico mio, se vuoi leggere buone notizie sugli ebrei, presta sempre attenzione agli antisemiti.»
Una vecchia e amara battuta. Eppure ha un senso e una storia, che inizia proprio con la parashà di questa settimana. Alcune delle cose più belle mai dette sul popolo ebraico sono state dette da Bil’am: “Chi può contare la polvere di Giacobbe? … Possa la mia fine essere come la loro! … Quanto sono belle le tue tende, o Giacobbe, le tue dimore, o Israele! … Una stella sorgerà da Giacobbe, uno scettro si leverà da Israele.”
Bil’am non era un amico degli ebrei. Dopo aver fallito nel maledirli, escogitò un piano che invece funzionò: consigliò alle donne moabite di sedurre gli uomini israeliti e poi invitarli a partecipare al loro culto idolatrico. Ventiquattromila persone morirono nella conseguente piaga che colpì il popolo.
I Maestri contano Bil’am tra i soli quattro non-reali menzionati nel Tanach a cui è negata una parte nel Mondo a Venire (Sanhedrin 90a). Perché allora Dio scelse che Israele fosse benedetto proprio da Bil’am? Esiste un principio:
“Megalgelin zechut al yedei zakai” – “Le cose buone si realizzano attraverso persone buone” (Tosefta Yoma 4:12). Perché allora questa cosa buona avvenne attraverso un uomo malvagio?
La risposta sta in un altro principio, espresso per la prima volta nei Proverbi (27:2): “Ti lodi un altro, non la tua bocca, uno straniero, non le tue labbra.” Il Tanach è forse la letteratura nazionale meno autocelebrativa della storia. Gli ebrei hanno scelto di tramandare nella storia le loro colpe, non i loro meriti. Per questo era importante che le loro lodi venissero da un estraneo, e da qualcuno che non li amava. Moshè rimproverava il popolo. Bil’am, l’estraneo, lo elogiava.
Detto ciò, resta da capire il significato di una delle descrizioni più famose mai date del popolo d’Israele: “È un popolo che dimora da solo, non è annoverato fra le nazioni.” (Bamidbar 23:9)
Ho spesso criticato l’interpretazione moderna, molto diffusa, secondo cui sarebbe destino d’Israele essere isolato, senza amici, odiato, abbandonato, solo, come se l’antisemitismo fosse scritto nel copione della storia.
Non è così. Nessuno dei Profeti ha mai detto questo. Al contrario: credevano che le nazioni del mondo avrebbero alla fine riconosciuto il Dio d’Israele e sarebbero salite a adorarLo nel Tempio a Gerusalemme. Zaccaria (8:23) prevede un giorno in cui: “Dieci uomini da tutte le lingue e nazioni afferreranno saldamente un ebreo per l’orlo della veste e diranno: ‘Vogliamo venire con te, perché abbiamo sentito che Dio è con te.’” Dunque non c’è nulla di predestinato o inevitabile nell’antisemitismo.
Cosa significano allora le parole di Bil’am: “Un popolo che dimora da solo, non annoverato fra le nazioni”?
Ibn Ezra afferma che queste parole vogliono dire che, a differenza di tutti gli altri popoli, gli ebrei non si assimileranno, anche quando sono minoranza in una cultura non ebraica.
Il Ramban spiega che la loro cultura e fede rimarranno pure, non un miscuglio cosmopolita di tradizioni e nazionalità diverse.
Il Netziv offre un’interpretazione più tagliente, rivolta agli ebrei del suo tempo: “Se gli ebrei vivono in modo distinto e separato dagli altri, abiteranno al sicuro. Ma se cercheranno di imitare ‘le nazioni’, allora non saranno più considerati nulla di speciale.”
Esiste tuttavia un’altra possibile interpretazione, accennata da un noto antisemita, G. K. Chesterton, che abbiamo già menzionato nella parashà di Beha’alotekha. Chesterton scrisse dell’America che era: “Una nazione con l’anima di una chiesa” e “l’unica nazione al mondo fondata su un credo”.
Questa è esattamente la caratteristica che rende Israele diversa – e, come hanno notato lo storico Perry Miller e il sociologo Robert Bellah, la cultura politica americana affonda profondamente le sue radici nell’idea dell’Israele biblico e nel concetto di alleanza (brit). L’antico Israele era davvero fondato su un credo ed era, di conseguenza, una nazione con l’anima di una religione.
Abbiamo visto nel commento alla parashà di Beha’alotekha, come Rav Soloveitchik distingua due modi in cui un gruppo umano si forma: come accampamento o come congregazione.
Gli accampamenti si formano di fronte a un nemico comune: un gruppo si unisce per necessità. Tutte le altre nazioni, antiche e moderne, sono nate per contingenze storiche: un popolo abita una terra, sviluppa una cultura comune, forma una società, e così diventa una nazione. Ma gli ebrei, soprattutto a partire dall’esilio babilonese, non avevano nulla di ciò che caratterizza una nazione convenzionale:
Non vivevano tutti nella stessa terra (alcuni in Israele, altri in Babilonia, altri in Egitto…).
Non parlavano la stessa lingua (c’erano molti dialetti ebraici: Yiddish, Ladino…).
Non erano soggetti allo stesso potere politico.
Non condividevano lo stesso ambiente culturale.
Non avevano la stessa sorte.
Eppure, nonostante tutte queste differenze, essi si sono sempre visti – e sono stati visti – come un’unica nazione: il primo popolo globale del mondo, e per lungo tempo l’unico.
Cosa li rendeva allora una nazione?
Questa è la domanda che pose Rav Sa’adia Gaon nel X secolo, a cui diede la celebre risposta: “La nostra nazione è una nazione solo in virtù delle sue leggi (torot).” Essi erano il popolo definito dalla Torà, una nazione sotto la sovranità di Dio. Avendo ricevuto, in modo unico, le loro leggi prima ancora di entrare nella Terra, rimasero vincolati a quelle stesse leggi anche dopo aver perso la Terra. Di nessun altro popolo questo si può dire.
Unicamente nel giudaismo, religione e nazione coincidono. Ci sono nazioni con molte religioni (come la Gran Bretagna multiculturale). Ci sono religioni che governano molte nazioni (come il cristianesimo o l’islam). Ma solo nel giudaismo esiste una corrispondenza uno a uno tra religione e nazione. Senza il giudaismo, non ci sarebbe nulla – se non l’antisemitismo – a unire gli ebrei sparsi nel mondo. E senza la nazione ebraica, il giudaismo cesserebbe di essere ciò che è sempre stato: la fede di un popolo unito da un legame di responsabilità collettiva verso Dio e verso i propri fratelli.
Bil’am aveva ragione. Il popolo ebraico è davvero unico. Nulla quindi potrebbe essere più errato che definire l’ebraicità come mera etnicità. Se l’etnicità è una forma di cultura, allora gli ebrei non sono un’unica etnia, ma molte. In Israele, gli ebrei rappresentano quasi ogni etnia esistente. Se invece si intende l’etnia come razza, allora convertirsi all’ebraismo sarebbe impossibile (non ci si può “convertire” per diventare caucasici, né cambiare razza a piacere).
Ciò che rende gli ebrei “un popolo che dimora da solo, non annoverato fra le nazioni” è che la loro nazione non si fonda su geografia, politica o etnia, ma su una vocazione religiosa: quella di essere partner dell’alleanza con Dio, chiamati ad essere un esempio vivente di popolo tra i popoli, distinti per la loro fede e per il loro stile di vita. Se perdiamo questo, perdiamo l’unica cosa che è stata ed è ancora la fonte del nostro contributo singolare alla storia dell’umanità. E quando lo dimentichiamo, purtroppo, Dio fa sorgere figure come Bil’am e Chesterton per ricordarcelo. Ma non dovremmo aver bisogno di simili promemoria.
Rabbi Jonathan Sacks, 2012