Netanyahu e Trump rilanciano la tregua a Gaza. Sul tavolo c’è anche il futuro dei palestinesi 

Mondo

di Anna Balestrieri
Il cessate il fuoco di 60 giorni. Ma anche il futuro di Gaza, con la possibilità per chi vuole di lasciare la striscia, e la proposta molto radicale del ministro Katz di concentrare gli abitanti nella zona di Rafah. Di questo e altro hanno parlato Trump e Netanyahu nell’incontro del 7 luglio alla Casa Bianca.

 

Gaza resta al centro del negoziato tra Israele e Stati Uniti. Lunedì 7 luglio, durante l’incontro alla Casa Bianca, Benjamin Netanyahu e Donald Trump hanno discusso il possibile cessate il fuoco di 60 giorni, un’intesa che prevede il rilascio scaglionato di ostaggi israeliani e un afflusso controllato di aiuti umanitari nella Striscia. Ma nei colloqui è riemerso anche un tema controverso: il futuro stesso della popolazione palestinese.

I progressi nelle trattative

Trump ha dichiarato che Israele ha accettato l’ultima proposta di tregua, che include la liberazione di 10 ostaggi vivi e 18 cadaveri in cambio della sospensione delle ostilità, della liberazione di prigionieri palestinesi e dell’ingresso di aiuti. Hamas ha risposto positivamente, ma ha avanzato riserve sulla natura temporanea dell’accordo, insistendo su una cessazione permanente delle operazioni militari.

Dietro le quinte, tuttavia, il nodo più spinoso resta il meccanismo di distribuzione degli aiuti. Israele punta a escludere la Gaza Humanitarian Foundation — considerata inefficace e vulnerabile al controllo di Hamas — mentre il movimento islamista pretende che l’intera gestione passi a enti come l’ONU e la Mezzaluna Rossa. La bozza attuale, mediata a Doha, prevede una formula vaga, senza menzionare direttamente la fondazione sostenuta da Stati Uniti e Israele.

Fonti diplomatiche riferiscono che Netanyahu ha ordinato alla delegazione israeliana di rallentare i negoziati sulla gestione degli aiuti, su pressione del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Secondo funzionari palestinesi, i veri colloqui non si tengono a Doha ma a Washington, dove Trump e il suo inviato speciale Steve Witkoff — in partenza per il Qatar — cercano di imprimere un’accelerazione.

I discorsi a margine dell’accordo

A margine dell’incontro, Netanyahu ha ribadito la linea dura contro Hamas: «Riporteremo a casa tutti gli ostaggi, ma Gaza non potrà più rappresentare una minaccia. Hamas non ci sarà più». Israele intende mantenere il controllo del corridoio di Morag, a nord di Rafah, anche durante l’eventuale tregua, e secondo il ministro della Difesa Israel Katz le truppe israeliane controllano oggi circa il 70% del territorio della Striscia.

Ma è proprio Katz ad aver rilanciato la proposta più radicale. In un briefing a Gerusalemme, ha annunciato la creazione di una “città umanitaria” sulle rovine di Rafah. L’area accoglierebbe inizialmente 600.000 palestinesi sfollati, che verrebbero sottoposti a controlli per escludere miliziani di Hamas, e sarebbe gestita da organizzazioni internazionali, con la sicurezza garantita da Israele a distanza. L’obiettivo dichiarato: concentrare l’intera popolazione di Gaza in questa zona e promuoverne l’emigrazione volontaria verso altri Paesi.

Un piano di trasferimento di massa che solleva forti interrogativi, tanto più che non è chiaro quali organizzazioni sarebbero disposte a collaborare. Il sospetto, alimentato anche da membri dell’estrema destra israeliana, è che nelle aree evacuate possano sorgere nuovi insediamenti.

La libera scelta e i due stati

Netanyahu ha sostenuto pubblicamente la visione di Trump su Gaza come luogo di “libera scelta”: «Se vogliono andarsene, dovrebbero poterlo fare. Non dev’essere una prigione». Secondo il premier, alcuni Paesi sarebbero pronti ad accogliere palestinesi, e i contatti con Washington sono in fase avanzata.

Nel corso dell’incontro, Trump ha glissato sulla soluzione dei due Stati, delegando a Netanyahu la replica. Il premier ha ribadito la posizione israeliana: autonomia amministrativa ai palestinesi, ma nessun controllo su questioni di sicurezza. «Non possiamo accettare soluzioni che mettano a rischio la nostra sopravvivenza», ha detto, auspicando però una pace regionale più ampia sotto la guida dell’ex presidente.

La questione iraniana

I colloqui hanno toccato anche il dossier iraniano. Dopo gli attacchi statunitensi a tre siti nucleari — uno dei quali, secondo Trump, “scavato nella roccia e completamente distrutto” — Teheran avrebbe chiesto un incontro. «Penso che ci rispettino molto di più ora», ha detto Trump, assicurando che la guerra con l’Iran «è finita». E ha lasciato intendere che si lavora a un’intesa, per ora solo verbale, ma potenzialmente formalizzabile.

La Casa Bianca, tramite la portavoce Karoline Leavitt, ha definito “privato” l’incontro tra i due leader, motivandolo con «le urgenti questioni regionali». Ma la posta in gioco è pubblica e cruciale: la tregua, la sorte degli ostaggi e il destino stesso della Striscia di Gaza.

Bibi propone Donald per il Nobel per la pace

Durante la cena, il premier israeliano ha consegnato al presidente americano un foglio su cui era scritta la candidatura di Trump al Nobel per la Pace, dicendo: «Sta forgiando la pace, mentre parliamo, in un Paese, in una regione dopo l’altra. Quindi, voglio presentarle, signor presidente, la lettera che ho inviato al Comitato per il Premio Nobel; la candida al Premio per la Pace, che è ben meritato, e dovrebbe riceverlo».