Yosef Zissels: l’identità ebraica, la guerra e la libertà

Mondo

di Davide Cucciati

Intervista a Yosef Zissels, figura storica dell’ebraismo ucraino, dissidente in epoca sovietica e oggi vicepresidente del Congresso Ebraico Mondiale

Yosef Zissels è una figura centrale nella storia dei diritti umani e della comunità ebraica in Ucraina. Nato a Tashkent nel 1946, si è trasferito a Cernivci negli anni ‘60, dove si è laureato in fisica teorica. Negli anni ‘70 è stato attivo nei movimenti democratici clandestini e nel 1978 ha aderito al Gruppo Helsinki ucraino, venendo arrestato e condannato per attività antisovietiche. Dopo la sua liberazione, Zissels ha co-fondato il Vaad, una Confederazione delle organizzazioni e comunità ebraiche dell’Ucraina. È anche vicepresidente del Comitato esecutivo del Congresso ebraico mondiale. Il 7 maggio 2025, dopo essere sceso dal treno notturno tra la cittadina polacca di Przemyśl e Kiev, mi sono recato alla Kyiv-Mohyla Academy, dove ho potuto porgli diverse domande faccia a faccia, grazie alla mediazione linguistica e alla competenza di Vadislav Maistrouk che ha avuto la gentilezza di prestarmi assistenza.

Come è strutturata la comunità ebraica ucraina?

In Ucraina non esiste un’unica organizzazione rappresentativa. È un Paese molto vasto e complesso, e oggi contiamo oltre 600 organizzazioni ebraiche attive. La nostra è la più grande: raccoglie quasi la metà delle comunità e delle strutture presenti sul territorio. Ma non pretendiamo di rappresentare tutti gli ebrei: rappresentiamo gli interessi delle organizzazioni che hanno scelto liberamente di farne parte. Domani, ad esempio, terremo una conferenza nazionale via Zoom: la guerra impedisce gli incontri in presenza, ma non li annulla. È un appuntamento che si ripete ogni sei anni, e anche questa volta si terrà regolarmente. Sono attesi 170–180 delegati da tutta l’Ucraina. L’organizzazione è pluralistica: vi partecipano comunità ortodosse, conservative, riformate, Chabad. Ogni corrente è rappresentata. Nella nostra struttura ci sono, tra gli altri, i capi rabbini riformista e conservative e anche alcuni ortodossi. Rav Azman e Rav Markovitch, invece, non fanno parte di questo Vaad.

Dall’indipendenza del Paese nel 1991, non abbiamo mai avuto un’unica voce centrale, ma questo non significa disorganizzazione. Significa diversità. In questo momento, la nostra unica vera urgenza è una: la guerra. Tutto il resto viene dopo.

La differenza tra l’essere un ebreo in epoca sovietica ed esserlo nell’Ucraina moderna?

Ho vissuto i miei primi 45 anni da cittadino dell’Unione Sovietica. Posso dirlo chiaramente: in URSS l’identità ebraica era sotto minaccia costante. Tutto ciò che poteva distinguere un ebreo da un non ebreo era proibito. Le sinagoghe esistevano – in Ucraina ce n’erano 14 – ma erano completamente controllate dal KGB. I rabbini collaboravano con i servizi segreti: per restare in carica dovevano fornire l’elenco completo degli iscritti.

Non esistevano scuole ebraiche. Nessuna possibilità di educazione religiosa. Nemmeno un teatro ebraico. Si poteva solo esprimere una forma di folclore in yiddish, mai in ebraico. Non c’era una struttura sociale ebraica, né assistenza, né comunità nel senso vero. Un ebreo era indistinguibile dagli altri cittadini. L’assimilazione era forzata. Settant’anni di repressione hanno distrutto tutto: cultura, tradizione, memoria. Non solo per gli ebrei: hanno colpito l’intero popolo.

Oggi, in Ucraina, è diverso. Non perfetto, ma diverso. Esistono comunità libere, scuole, strutture, rabbini che non dipendono dal potere. In Russia, invece, ancora oggi un rabbino non può esistere senza sostenere le istituzioni. In Ucraina, sì. Anche questo è parte della nostra libertà.

La guerra che stiamo vivendo è il cuore di tutto. È una guerra che ha stravolto la vita del Paese, ma anche la nostra identità. Abbiamo perso circa il 20% delle persone connesse all’ebraicità secondo la Legge del Ritorno. In Ucraina, oggi, ci sono circa 200.000 persone che, in base a quella legge, avrebbero diritto a emigrare in Israele. Un numero che tiene conto anche dei territori attualmente occupati dalla Russia.

In Crimea, circa l’80% della comunità ebraica è rimasta. Nel Donbass, prima del 2014, c’erano circa 30.000 persone connesse all’identità ebraica. Oggi ne restano meno di tremila. Il 90% si è spostato inizialmente in altre regioni dell’Ucraina; poi, alcuni sono emigrati in Israele, altri negli Stati Uniti o nell’Unione Europea. Circa il 10% è andato in Russia. Ma molti, da lì, sono passati in Israele attraverso la Georgia.

Molti ebrei vivevano nelle regioni orientali, perché erano le più industrializzate. Ora le comunità dell’ovest si sono ingrandite. Il crollo dell’Unione Sovietica non ha portato automaticamente a un miglioramento della condizione ebraica nei vari Paesi dell’ex URSS. Dipende dallo Stato. L’Ucraina ha scelto una strada democratica, come Georgia e Moldavia. Ma la guerra ci frena. Putin farà di tutto perché non finisca.

Resistiamo. Ma non possiamo vincere da soli. Un armistizio non serve. Una pace vera non è possibile se non c’è la forza. Lo dicevo già due anni fa: non ci sarà pace a breve. L’Ucraina potrà sopravvivere solo se diventerà un Paese militarizzato, come Israele. Tutti (bambini, bambine) dovranno crescere in questa consapevolezza. Ma molti, anche qui, non l’hanno ancora capito. Sperano in un miracolo. Io no.

La Russia è imperialista, autoritaria

Il problema non è solo Putin. Il problema è la Russia. L’identità russa è imperialista, autoritaria, orientale. È un blocco culturale: 150 milioni di persone che la pensano così. Chi non è d’accordo è già scappato. A loro non interessa l’economia: vogliono solo il controllo. Per questo hanno rotto i rapporti con l’Occidente. Vogliono tornare al potere che avevano dopo la Seconda guerra mondiale. Se l’Europa continuerà a essere tollerante, si prenderanno tutto. Pezzo dopo pezzo.

Chi è che l’ha già capito? I polacchi. I baltici. Perché ne sanno qualcosa, l’hanno vissuta sulla pelle. L’Europa sa cosa sia il nazismo, ma non ha mai davvero compreso cosa sia stato il comunismo. Ma non è il comunismo in sé il problema: è l’identità profonda di quel mondo. Aggressiva, espansionista, violenta. Non importa sotto quale ideologia.

La Russia, così com’è oggi, non può diventare democratica. L’Occidente non vuole capirlo. È un’illusione. Un’illusione senza giustificazione. Il discorso è identico anche per l’Iran. Ancor di più, la Cina. Lo sapete che nel XX secolo la Cina ha ucciso settanta milioni di suoi cittadini? Nessuno è mai stato condannato. Nessuno ha chiesto scusa. Eppure tutti comprano la merce cinese, nessuno si chiede cosa accade davvero in quel Paese. Mi domando: dobbiamo per forza vivere in prima persona una dittatura per capirla?

Cosa pensa del memoriale di Babi Yar a Kiev?

Quello sovietico o il progetto più recente russo? Quest’ultimo è un’operazione di guerra ibrida. Nel 2015, tre grandi imprenditori russim tutti ebrei, che conosco personalmente, hanno proposto un nuovo memoriale a Babi Yar. Il presidente della Russia, mentre era in guerra contro l’Ucraina, ha dato loro il permesso di investire cento milioni di dollari in questo progetto. È surreale. È evidente che si trattava di un cavallo di Troia.

L’intento era duplice: attenuare le impressioni della guerra in corso e suggerire, attraverso il memoriale, che gli ucraini sono nazisti. Ma la narrazione russa è inaccettabile. Noi abbiamo presentato un’alternativa nel 2017: un progetto elaborato da un gruppo di storici ucraini dell’ebraismo, che non aveva bisogno di cento milioni. Prevedeva una serie di musei, un’elaborazione autentica del ruolo degli ucraini durante la Shoah. Nessuno vuole coprire i crimini. Ma il punto è chi racconta la storia, e con quale intento.

Personaggi come Bandera o Petljura restano figure molto controverse. Che posizione ha al riguardo?

Non sono i miei eroi. Ma per metà della popolazione ucraina lo sono, perché sono morti per l’indipendenza. Avevano idee sbagliate, sì. Ma cent’anni fa chi aveva davvero le idee giuste? Tutti avevano errori in testa. La cosa più importante è quale lezione si è imparata dopo.

La Germania, che era il Paese più nazista in assoluto, oggi fa parte dell’Unione Europea e della NATO. Eppure ora si giudica l’Ucraina per ciò che qualcuno pensava cento anni fa. Ma guardiamo i fatti: in trentacinque anni di parlamentarismo, in Ucraina non c’è mai stata una dichiarazione antisemita in aula. Nessun partito di estrema destra in parlamento. Nessuna manifestazione contro Israele. In Italia, ogni anno, ci sono più di cento atti di vandalismo contro memoriali ebraici. In Ucraina? Quattro o cinque.

Eppure, la Germania non celebra personaggi storici ambigui.

Questa è retorica. Sono così anziano che credo solo ai fatti. L’AfD, un partito neonazista, è oggi al 25–26%. Hanno forse risolto il problema? No. Se guardiamo alle azioni dei cittadini, un quarto dei tedeschi sarebbe ben felice di tornare a certe idee.

L’Ucraina, invece, sta difendendo sé stessa. E anche l’Europa. Il “russismo”, come chiamiamo noi questa ideologia, è la vera minaccia. E la nostra colpa sarebbe che cento anni fa qualcuno aveva idee sbagliate?

Cosa pensa della sentenza della Corte Suprema ucraina del dicembre 2022, che ha escluso l’associazione tra i simboli della divisione SS Galizia e l’ideologia nazista?

In Ucraina abbiamo stabilito per legge la proibizione dei simboli nazisti e comunisti. Tutto il resto è una questione che riguarda i giudici. Quanto a questa sentenza, con tutti i problemi che abbiamo oggi, non la considero una questione prioritaria. Tutte le guerre per l’indipendenza non si combattono con i guanti bianchi. Esiste un sistema giuridico: se la Corte si è espressa così, per me non è un problema. Quelli erano soldati, facevano parte di un esercito. Chi di loro ha partecipato a crimini contro la popolazione civile è un criminale, e deve essere giudicato. Ma nessun tribunale ha condannato l’intero reparto, così come non è accaduto per altri reparti nella Wehrmacht o delle SS. Prendiamo la ROA, l’Esercito Russo di Liberazione del generale Vlasov: era il principale collaborazionista con i nazisti e contava il doppio degli uomini dell’UPA, ma se ne parla pochissimo. C’erano anche altri gruppi armati russi, molto più numerosi dell’UPA, ma nessuna corte internazionale li ha giudicati come criminali collettivamente. Poi, bisogna essere chiari: all’epoca l’Ucraina non esisteva come Stato. C’era l’Unione Sovietica. Alcuni ucraini, in quel contesto, avevano l’illusione di poter ottenere uno Stato indipendente collaborando con la Germania. Ma ogni persona rispondeva solo per sé stessa. Chi ha commesso crimini è un criminale, indipendentemente dall’origine o dalla divisa.

Israele ha fatto abbastanza per aiutare l’Ucraina?

Vorrei che Israele facesse di più. Ma capisco anche la sua posizione. Conosco ministri e parlamentari: Israele è molto potente, ma anche molto provinciale. È concentrato sul proprio interesse nazionale, sulla sopravvivenza. Vivono sotto la minaccia costante di annientamento. È comprensibile che si concentrino su sé stessi.

Che impressione le ha fatto il voto contrario di Israele alla condanna dell’invasione russa alle Nazioni Unite?

Va detto che anche l’Ucraina, in passato, ha votato più volte contro Israele. La nostra diplomazia è tradizionalmente conservatrice. Alcuni diplomatici hanno ancora una formazione sovietica, tendenzialmente filo-araba. Ma dopo il 7 ottobre, ho visto comparire in Israele molti articoli che descrivono la loro guerra come esistenziale. Tra civiltà democratiche e regimi radicali. Proprio come la nostra.

Ci sono ebrei nell’esercito ucraino?

Sì, molti. Secondo i miei calcoli, circa mille. E fino al 7 ottobre c’erano anche duecento cittadini israeliani volontari. Io stesso faccio parte della difesa territoriale. Nel mio battaglione, “Riva Sinistra”, il mio reparto si chiama “Ucraina Libera”. Ho 79 anni, forse sono il più anziano della difesa territoriale.

Nel nostro gruppo ci sono anche due squadre al fronte: una si occupa di droni, l’altra della logistica. Finora, venti ebrei ucraini sono morti combattendo. Più di cento sono stati feriti. A proposito della vita ebraica, stiamo raccogliendo tutte le informazioni per pubblicare un libro, in più lingue, intitolato Esodo 2022. Racconterà le storie di chi a inizio vita era profugo per colpa dei nazisti e oggi lo è per colpa di Putin.

Nelle prime settimane della guerra abbiamo organizzato trasporti, mezzi, autobus per evacuare chi era vicino al fronte. Abbiamo aiutato tutti, anche i non ebrei. Con i soldi della comunità. Il World Jewish Congress ci ha sostenuto sin dal primo giorno, ma io ho posto una condizione: metà dei fondi per la comunità ebraica, metà per gli altri cittadini ucraini.

Siamo riusciti a costruire in tre anni una rete di assistenza psicologica unica al mondo. Abbiamo raccolto 3,5 milioni di dollari. Ci lavorano 150 psicologi e 13 psichiatri. Oltre undicimila persone sono in coda per accedere al programma. Quattromila hanno già completato corsi intensivi di tre settimane, soprattutto nei Carpazi. Ma la lista cresce più velocemente della nostra capacità di offrire aiuto.

La disfunzione psicologica si può manifestare anche un anno dopo. Per questo, già nel 2014 avevamo cominciato a formare gli psicologi ucraini con il supporto di esperti israeliani per trattare il PTSD, il disturbo da stress postraumatico. Oggi collaboriamo con due grandi ONG israeliane. Una si chiama IRIS, ha 250 psicologi che parlano ucraino e russo e assistono online i nostri cittadini. L’altra è Israel Trauma Coalition. Sono loro, la società civile ebraica, che ci aiutano più dello Stato israeliano.        

 

(Tutti i testi e le immagini di questo reportage dall’Ucraina sono © Davide Cucciati per Bet Magazine/Mosaico)