Festival / Il lungo cammino verso la libertà

di Ester Moscati

Schermata 2014-07-16 a 15.45.28«La narrazione biblica dell’Esodo – dall’Egitto al deserto e alla terra promessa – è stata interpretata per secoli come una metafora dei processi di liberazione e rivoluzione». Così scrive Salvatore Veca a proposito di Esodo e Rivoluzione di Michael Walzer, il libro che rappresenta un po’ il punto di origine dell’edizione 2014 di Jewish and the City, il cui tema è proprio Pesach. Il lungo cammino verso la Libertà. E continua: «Michael Walzer, uno dei maggiori filosofi politici americani, presenta il suo commento al testo biblico e decifra la famiglia di significati dell’Esodo, gettando una luce nuova sulla tradizione del radicalismo politico. Walzer discute la natura dell’oppressione (Egitto), i dilemmi dell’affrancamento come apprendimento della libertà (le mormorazioni nel deserto), il ruolo delle scelte individuali per il contratto sociale che definisce diritti, doveri e regole per la vita collettiva (l’alleanza) e, infine, la natura della terra promessa. Contro un’immagine canonica del radicalismo inteso come messianismo politico, per cui la terra promessa è il paradiso di una società perfetta, Walzer sostiene che l’Esodo suggerisce una prospettiva più sobria. La terra promessa è semplicemente un posto ‘migliore’ dell’Egitto. Perché, senza dubbio, c’è un posto migliore. Ma la strada che vi conduce attraversa il deserto. E c’è un solo modo per raggiungerla: prenderci per mano e marciare». Salvatore Veca sarà – con altri filosofi – al Festival, a portare il suo contributo di idee e riflessioni, “prendendo per mano” i compagni di strada di questa avventura culturale del settembre milanese.
«Sì, perché il Festival è l’impegno della Comunità per il dialogo, – dice Rav Roberto Della Rocca, direttore scientifico di Jewish and the City –  per far conoscere la cultura ebraica nei suoi aspetti positivi, concettuali e di valori». La libertà, prima di tutto; senza essere uomini liberi non si può essere se stessi, quindi neppure ebrei. Ma non è così facile essere liberi, non è scontato, non è immediato. «La libertà è un cammino. C’è differenza tra liberazione e libertà. È solo dopo la liberazione dall’Egitto che inizia il percorso. Tutto il succo della storia dell’Esodo è che non basta essere liberati per essere liberi. Se la liberazione non è accompagnata da un percorso etico non è libertà. Ci si arriva solo quando si diventa responsabili e consapevoli. Oggi la libertà è una parola molto di moda, ma non basta dire Libertà perché Libertà sia». Il cammino è tortuoso, a volte pericoloso e si accompagna al dolore che spesso si genera dalla consapevolezza, dal “fare i conti”, con se stessi e con gli altri.
Il gruppo promotore del Festival ha scelto questo argomento perché, dice ancora Rav Della Rocca, «è la continuazione naturale del tema dello scorso anno, lo Shabbat. Pesach è la prima delle grandi feste, dopo quella a ciclo breve del sabato; ma Pesach è anche complementare allo Shabbat. Non a caso sono i due “memoriali” di cui parla la Bibba: Zekher ma’ase Bereshit, il ricordo dell’opera della Creazione, e Zekher yetziat Mizrahim, il ricordo dell’uscita dall’Egitto. Sono due momenti che procedono insieme. Molti dettami biblici rimandano a temi che hanno una valenza universale: l’esilio, l’essere straniero, la narrazione, la memoria, la differenza, l’identità. Ma come sempre acquistano per noi ebrei una dimensione particolaristica».
Tra le conferenze, gli incontri, gli spettacoli e i concerti, assumono un significato particolare, all’interno del Festival, le “Maratone” di pensieri e parole che anche quest’anno vedranno la partecipazione di artisti, scrittori, attori, rabbini, docenti. Una di queste sarà dedicata al tema “Da quale schiavitù dobbiamo liberarci?”. Ciascun intervento avrà la durata di 18 minuti, il limite di tempo che va osservato dall’impasto alla cottura delle Matzòt di Pesach, perché non diventino chamètz, lievitate, inadatte ad essere portate sulla tavola del Seder pasquale. «La maratona – spiega Rav Della Rocca – è un format che in qualche modo ha il valore aggiunto di poter ascoltare più persone ed evitare la forma ex cathedra, troppo paludata e distante. Mette a confronto una varietà di voci e di punti di vista. Farlo in 18 minuti è un voler sottolineare l’identità ebraica, che a volte si gioca su quantità infinitesimali di tempo. A volte ci dicono ‘ma cosa vuoi che sia un pochino di strutto…’. Ma per un “pochino”, per un minuto è stato salvato il popolo dall’Egitto. Bastava solo pochissimo tempo e il popolo avrebbe perso la propria identità. La nostra identità passa dunque anche per quella quantità infinitesimale di tempo. La fretta è ciò che caratterizza la festa di Pesach e anche i concetti più alti, come la libertà, passano attraverso manifestazioni molto tangibili, molto pratiche. Non c’è dicotomia tra forma e sostanza, nell’ebraismo; anche il rito si coniuga con il cibo. E l’azzima è un ‘chametz potenziale’, mentre il chametz è stato inizialmente azzima, che è stata lavorata troppo a lungo. Tutto passa quindi per un tempo molto piccolo, e questo vogliamo farlo percepire concretamente dando il limite, 18 minuti».
Un Festival che si annuncia ricchissimo di eventi e partecipazione. «C’è molto entusiasmo, curiosità, voglia di confronto in tutti coloro che abbiamo coinvolto quest’anno, forti del successo della precedente edizione», conclude il Rav. Appuntamento quindi a sabato 13 settembre, con un’anteprima a sorpresa.

 

Daniele Cohen: un festival  per Milano

«Stiamo immaginando un concerto straordinario al Palazzo Reale, che chiuderà il Festival Jewish and the City e inaugurerà una delle mostre più importanti dell’autunno milanese, una grande retrospettiva dedicata a Marc Chagall, la più grande mai realizzata in Europa. È un ideale passaggio del testimone che abbiamo voluto insieme al Comune di Milano».
Così dice Daniele Cohen, Assessore alla Cultura della Comunità: «Le aspettative per questa seconda edizione del Festival sono alte e c’è grande interesse e fermento in tutte le istituzioni e persone coinvolte. In particolare, sull’onda del successo della precedente edizione per la quale il Comune di Milano ha espresso più volte in diverse occasioni la sua grande soddisfazione, con Palazzo Marino la sintonia è totale. Con i vari settori del Comune, cultura, turismo, spettacolo, lavoreremo in sinergia e ci è stata data la disponibilità di sedi e strutture. Sono molto contento, soprattutto, di questa idea-spettacolo su Chagall perché ci porta direttamente nel quadro di un evento di importanza internazionale. In occasione del semestre italiano di presidenza dell’Unione Europea, infatti, il palinsesto culturale milanese si declinerà nel programma “Milano cuore d’Europa”, il cui progetto espositivo prevede il tributo ad alcuni importanti artisti che impersonano la molteplice identità europea. Chagall e altri, quindi, nel segno dei concetti di sradicamento, viaggio, identità che si coniugano perfettamente con il programma e l’idea di fondo di Jewish and the City».
La seconda edizione del Festival (da sabato 13 a martedì 16 settembre), ospita anche la Giornata Europea della Cultura Ebraica (quest’anno dedicata a Donne nell’ebraismo). Eventi, spettacoli, concerti, workshop, lecture, dibattiti e tanto pubblico animeranno alcune delle sedi più importanti della vita culturale milanese che si sviluppano attorno alla Sinagoga Centrale di Milano e al Quartiere Guastalla: la Rotonda di Via Besana, la Società Umanitaria, il Teatro Franco Parenti, la Biblioteca Sormani, l’Università degli Studi di Milano, le Gallerie d’Italia, la Fondazione Corriere della Sera. Novanta sono stati lo scorso anno i relatori italiani e stranieri: studiosi, filosofi, antropologi, registi, musicisti, attori, scrittori, esperti di cultura ebraica, artisti. Oltre 15.000 persone hanno partecipato a Jewish and the City. E quest’anno si prevede un analogo successo, grazie agli ospiti che hanno confermato la loro presenza e a molte novità. «Daremo più spazio alla musica e ai momenti di spettacolo e divertimento, sempre nel quadro del tema “Il lungo cammino verso la libertà” – continua Daniele Cohen -. La formula dello scorso anno è stata vincente e la ripeteremo: chiamare persone diverse per esperienza, discipline e campi di studio, identità e formazione, a parlare sullo stesso tema, in modo da declinarlo nelle più diverse sfaccettature. Il pubblico ha apprezzato soprattutto le occasioni di approfondimento e, dai riscontri che abbiamo avuto, possiamo affermare che il Festival internazionale di cultura ebraica Jewish and the City è vissuto come un evento che lascia il segno, che arricchisce profondamente tutti coloro che partecipano».