La nuova elite politica di Israele parla russo. Da Mosca a Gerusalemme: finanza, potere, nazionalismo

Israele

di Aldo Baquis

L’amicizia tra Putin e Netanyahu. Ministri e finanzieri nati nell’Europa dell’Est. La politica in Israele sembra sempre più condizionata dai russofoni. Dai primi pionieri russi e socialisti che sognavano in Erez Israel un mondo più giusto allo strapotere dei nuovi oligarchi

Irina Edelstein con il padre Leonid Nevzelin
Irina Edelstein con
il padre Leonid Nevzelin

Nell’estate di questo  2016, un posto ideale per riflettere sui destini di Israele è forse il cimitero del kibbutz Kfar Ghiladi (al confine col Libano). In particolare è bene soffermarsi presso la semplice tomba di Manya Wilboshevitz Shohat, la rivoluzionaria che a 20 anni già guidava in Russia la maggiore organizzazione operaia ebraica (in alternativa al Bund) e che fu in prima linea nello sciopero che paralizzò Odessa nel 1903: era la prova generale della ribellione della corazzata Potemkin. L’intrepida Manya – assieme al marito Israel Shohat – avrebbe poi trasferito in Galilea la grinta rivoluzionaria. Avrebbero gettato i semi del socialismo collettivo, dell’egualitarismo, della difesa armata degli insediamenti ebraici e anche dell’impegno per la pace. Dall’impero russo in putrefazione (che includeva anche Polonia, Bielorussia, Ucraina) giunsero allora in Galilea altre figure titaniche rimaste scolpite nella memoria storica degli israeliani: il filosofo tolstoiano A. D. Gordon e il suo discepolo Yosef Brenner; il veterano dell’esercito russo Yosef Trumpeldor; il futuro premier laburista David Ben Gurion; l’idealista Menachem Belkind (poi stritolato nelle purghe staliniane); i militanti del Pkp, il partito comunista ebraico-palestinese. Personaggi assolutamente diversi fra loro, divisi anche da rivalità e da odi politici. Ma tutti portatori di un messaggio universale che grondava ottimismo. Le “radiazioni” emanate all’epoca da Mosca e dintorni parlavano di fratellanza fra i popoli e di una emancipazione da conquistare basandosi sul lavoro manuale, e mai sullo sfruttamento. Grazie a loro, l’Yishuv rappresentò un punto di riferimento per chi sognava un mondo migliore.

Oggi, a Gerusalemme…
Dalla tomba di Manya Shohat all’ingresso della Kirya (sede del Ministero della Difesa, ndr): qui, un picchetto militare di onore accoglie il nuovo ministro Avigdor Lieberman. È qualcosa di più di un normale avvicendamento, è un “ricambio di elites”, suggerisce la stampa. Cresciuto in un kibbutz, il ministro uscente Moshe Yaalon ha pur partecipato a missioni rischiose alla guida di una unità di elite, per sei anni – da Ministro della Difesa – ha guidato con mano ferma l’esercito e ha imbrigliato la nuova intifada. Poi lo spartano ex combattente è però entrato in collisione con Netanyahu, che senza troppi complimenti lo ha defenestrato. Il suo successore, Yvet Lieberman, viene da ben “altro Israele”. Nato nel 1958 in Moldova, ha dovuto sgomitare per dare la scalata e conquistare posizioni di comando. Prima nel Likud, poi alla guida di una controversa lista russofona. Ancora di recente, dai banchi dell’opposizione, lanciava epiteti contro Netanyahu: «bugiardo, imbroglione, inaffidabile». Ma quando questi gli ha offerto il Ministero della Difesa, cioè la seconda carica per importanza in Israele dopo quella del Primo ministro, non ha saputo rifiutare.
Ora controlla direttamente – oltre alle vite dei militari israeliani – anche il 20 per cento del bilancio statale. La sostituzione ai vertici della difesa è avvenuta mentre Netanyahu guarda con crescente interesse a Mosca: in meno di un anno, quattro incontri con Vladimir Putin. A cui peraltro l’ingresso alla difesa di un ministro che è di casa nell’Europa dell’Est non dispiace. A giugno, nel più recente incontro con Putin, Netanyahu si è avvalso di un interprete di eccezione: l’ex Viceministro degli Esteri e ora Ministro per la Diaspora, Vladimir Borisovic Zeev Elkin, nato nel 1971 in Ucraina, fluente in russo. Dopo aver fatto parte di quattro o cinque partiti, Elkin – un genio della matematica e della fisica, che come Lieberman ha rapidamente scalato la politica israeliana – è ora considerato un astro nascente nel Likud.
Sempre a giugno, si è celebrato in pompa magna il matrimonio (il secondo) del presidente della Knesset Yuli Yoel Edelstein, nato nel 1958 in Ucraina; dopo una gimkana fra diversi partiti si è infine sistemato in una posizione di spicco nel Likud. Nelle fotografie del matrimonio, alle sue spalle, si nota il presidente dell’Agenzia ebraica Anatoli Natan Sharansky (nato in Ucraina nel 1948). Come Edelstein, è anch’egli approdato nel Likud dopo aver diretto il modesto partito russofono Israel be-Alya. Con Yvet, Yuli, Vladimir e Anatoli la società israeliana si è confermata particolarmente aperta anche verso chi è immigrato solo con una valigia in mano, da strati sociali modesti, spesso senza amicizie influenti.
Fra loro, il più deludente è Sharansky. Liberato da un Gulag nel 1986 e arrivato in Israele con l’aureola del dissidente politico e dello strenuo combattente per la libertà, in seguito si è adagiato in un conformismo nazionalista. Chi si attendeva da lui una comprensione, anche tenue, per la lotta dei palestinesi contro l’occupazione o per la emancipazione degli arabi cittadini di Israele, ha dovuto prendere nota che quei temi gli sono estranei. Con foga ancora maggiore, Lieberman si è distinto per le posizioni di antagonismo verso gli arabi cittadini di Israele: per beneficiare dei diritti civili dovrebbero a suo parere sottoscrivere una dichiarazione di fedeltà. Edelstein non è dissimile: pur nella sua impegnativa veste di presidente della Knesset (che prima di lui aveva visto brillare Reuven Rivlin, del Likud), egli ostenta insofferenza verso alcuni deputati arabi. “Quegli esseri”, li ha definiti con spregio di recente. Su questa linea di pensiero si trova anche Elkin, indignato a fine giugno perché, a suo parere, il deputato arabo Ahmed Tibi gli sembrava non comprendesse che «Israele è uno Stato sia democratico, sia ebraico. Se non gli aggrada – ha proseguito – che si cerchi un altro parlamento altrove». Immediata la replica stizzita di Tibi: «Onorevole Ministro, io sono nato a Taibeh, lei a Kharkov. Malgrado le sue posizioni fasciste, io non l’ho mai sollecitata a cercarsi un altro parlamento in Ucraina».
L’irresistibile attrazione da parte di alcuni dirigenti politici di Israele verso i generosi “aiuti” da importanti uomini d’affari stranieri è ben nota e non conosce colorazione politica. A sinistra si sono distinti Weizman e Barak; al centro Olmert; a destra Sharon e Netanyahu: tutti uniti nella equazione “contanti, in cambio di prestigio”. In questo contesto non fa troppa meraviglia che nel suo libro-dossier, Il Caso Lieberman Avia Alef – direttrice fino al 2013 del Dipartimento per la lotta ai crimini finanziari nella magistratura israeliana – scriva che il suo staff indagò sulle intricate attività finanziarie nell’Europa dell’Est dell’attuale Ministro della Difesa. Nel 2001 una società a lui riconducibile, afferma Avia Alef, ricevette mezzo milione di dollari dall’oligarca russo Michael Chernoy. Lei lottò per un’incriminazione, ma il consigliere legale del governo, Yehuda Weinstein, ritenne che le carte che per anni Alef aveva raccolto in vari Paesi non dessero ancora la certezza di una condanna, e il caso fu chiuso.
Attirati dall’avanzata degli ebrei russofoni nella politica israeliana, altri oligarchi sono intanto comparsi alla luce dei riflettori. Fra questi Leonid Nevzelin, che vive in Israele da dove finanzia il Museo della Diaspora nonché il prestigioso mensile Liberal; anni fa ha anche acquistato il 20 per cento delle azioni di Ha’aretz. È il padre di Irina, la sposa di Edelstein. Fra i loro ospiti è stato notato un altro oligarca, Michail Khodorkhowski, che come Nevzelin è indicato come un oppositore di Putin.
Un tempo, il binomio “Hon-Shilton” (Capitale-Potere politico, in ebraico) prosperava nell’ombra, nelle salette private di grandi alberghi o di aeroporti. Ma nel matrimonio Edelstein-Nevzelin è balenato anche un elemento di ostentazione, con le limousine nere dei potenti che sfrecciavano fra i plebei incuriositi e con la chiusura del traffico aereo sul “Ranch Ronit” (a nord di Tel Aviv), dove si è svolto lo sfarzoso ricevimento. Centosessantacinque chilometri separano il cimitero del kibbutz Kfar Ghiladi dal “Ranch Ronit”. Ma tra loro la distanza appare abissale. Di qua, l’insediamento ebraico in Palestina come fu sognato dai primi pionieri. Di là, il suo muscolare, luccicante, aspetto attuale.