(Foto: La Morte di Mosè, illustrazione da una Bibbia pubblicata nel 1907 dalla Providence Lithograph Company)

Parashat Vayelech. L’ebraismo è una lunga storia d’amore fra il polo ebraico e la Torà

Parashà della settimana

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Finché il popolo ebraico non smetterà mai di studiare, il cuore ebraico non smetterà mai di battere. Mai un popolo ha amato un libro di più. Mai un libro ha sostenuto un popolo più a lungo o lo ha sollevato più in alto.
(Foto: La Morte di Mosè, illustrazione da una Bibbia pubblicata nel 1907 dalla Providence Lithograph Company)

 

Ormai Mosè aveva dato 612 comandamenti agli Israeliti. Ma c’era ancora un’ulteriore istruzione che doveva dare, l’ultima della sua vita, l’ultima mitzvà della Torà. «Ora dunque scrivete per voi questo cantico e insegnatelo ai figli d’Israele. Ponetelo nella loro bocca, affinché questo cantico Mi serva da testimone contro i figli d’Israele.» (Deuteronomio 31:19)

La Tradizione Orale ha compreso questo come un comando che ciascun Israelita debba prendere parte alla scrittura di un Sefer Torà. Così Maimonide formula questa legge: «Ogni Israelita maschio è comandato di scrivere per sé un rotolo della Torà, come è detto: “Ora dunque scrivete per voi questo canto”, cioè, “Scrivete per voi stessi [una copia completa della] Torà che contiene questo canto”, poiché non scriviamo passi isolati della Torà [ma solo un rotolo completo]. Anche se uno ha ereditato un Sefer Torà dai suoi genitori, nondimeno è mitzvà scriverne uno per se stesso, e chi lo fa è come se avesse ricevuto [la Torà] dal Monte Sinai. Chi non sa scrivere un rotolo può incaricare [uno scriba] di farlo per lui, e chi corregge anche una sola lettera è come se avesse scritto un intero rotolo.» (Mishnè Torà, Leggi di Tefillin, Mezuzà e Sefer Torà 7:1)

C’è qualcosa di poetico nel fatto che Mosè abbia tralasciato di dare questa legge solo al termine della sua vita. Era come se stesse dicendo alla generazione successiva, e a tutte le generazioni future: non pensate che basti dire “I miei antenati hanno ricevuto la Torà da Mosè.” Voi dovete prenderla e renderla nuova in ogni generazione. E così gli ebrei fecero.

Il Corano chiama gli ebrei “il Popolo del Libro.” È una grande sottovalutazione. Tutto l’ebraismo è una lunga storia d’amore tra un popolo e un libro – tra gli ebrei e la Torà. Mai un popolo ha amato e onorato un libro di più. Lo leggevano, lo studiavano, vi discutevano sopra, lo vivevano. Alla sua presenza stavano come davanti a un re. A Simchat Torà danzano con esso come con una sposa. Se – Dio non voglia – cade, digiunano. Se non è più idoneo all’uso, lo seppelliscono come un parente defunto.

Per mille anni scrissero commentari su di esso nella forma del resto del Tanach (passarono mille anni tra Mosè e Malachia, l’ultimo dei profeti, e nell’ultimo capitolo dei libri profetici Malachia dice a nome di Dio: «Ricorda la Torà del Mio servo Mosè, i decreti e le leggi che gli diedi a Horeb per tutto Israele»). Poi, per un altro millennio, tra l’ultimo dei profeti e la chiusura del Talmud babilonese, scrissero commentari ai commentari nella forma dei documenti – Midrash, Mishnà e Ghemarà – della Legge Orale. Poi, per un ulteriore millennio, dai Geonim ai Rishonim fino agli Acharonim, scrissero commentari ai commentari dei commentari, sotto forma di esegesi biblica, codici di legge e opere di filosofia. Fino all’età moderna, praticamente ogni testo ebraico era direttamente o indirettamente un commento alla Torà.

Per cento generazioni fu più di un libro. Era la lettera d’amore di Dio al popolo ebraico, il dono della Sua parola, il pegno del loro fidanzamento, il contratto matrimoniale tra il cielo e il popolo ebraico, il legame che Dio non avrebbe mai spezzato né revocato. Era la storia del popolo e la loro costituzione scritta come nazione sotto Dio. Quando furono esiliati dalla loro terra, divenne la prova documentaria di una promessa passata e di una speranza futura. Con una formula brillante, il poeta Heinrich Heine definì la Torà «la patria portatile dell’ebreo». Nel gloss di George Steiner (scrittore saggista ed ebraista francese 1929-2020): «Il testo è casa; ogni commentario un ritorno.»

Dispersi, sparsi, senza terra, senza potere, finché un ebreo aveva la Torà, lui o lei erano a casa – se non fisicamente, allora spiritualmente. Ci furono momenti in cui era tutto ciò che avevano. Da qui la lacerante frase in uno dei poemi liturgici della tefillà di Neilà alla fine di Yom Kippur: «אין לנו שיור רק התורה הזאת» «Non ci è rimasto nulla se non questa Torà».

Era il loro mondo. Secondo un Midrash, era l’architettura della creazione: «Dio guardò nella Torà e creò l’Universo.» Secondo un’altra tradizione, l’intera Torà era un unico nome mistico di Dio. Era scritta, dicevano i saggi, con lettere di fuoco nero su fuoco bianco. Rabbi Yosè ben Kisma, arrestato dai Romani per aver insegnato Torà in pubblico, fu condannato a morte, avvolto in un Sefer Torà che fu poi dato alle fiamme. Mentre moriva, i suoi studenti gli chiesero cosa vedesse. Egli rispose: «Vedo la pergamena che brucia, ma le lettere che volano [di nuovo in cielo]» (Avodah Zarah 18a). I Romani potevano bruciare i rotoli, ma la Torá era indistruttibile.

Così c’è un immenso potere nell’idea che, mentre Mosè giungeva alla fine della sua vita e la Torà alla fine della sua narrazione, l’imperativo finale fosse un comando a continuare a scrivere e studiare la Torà, insegnandola al popolo e “mettendola nella loro bocca,” affinché essa non li abbandonasse, né essi abbandonassero lei. La parola di Dio avrebbe vissuto dentro di loro, donando loro vita.

Il Talmud racconta una storia intrigante su re Davide, che chiese a Dio di dirgli quanto a lungo avrebbe vissuto. Dio gli rispose che quella era una cosa che nessun mortale conosce. L’unica cosa che Dio gli rivelò fu che sarebbe morto di Shabbat. Il Talmud dice allora che ogni Shabbat la “bocca di Davide non smetteva di studiare” per tutto il giorno. Quando giunse il giorno in cui Davide doveva morire, l’Angelo della Morte fu inviato, ma trovando Davide impegnato in un incessante studio, non poté prenderlo – poiché la Torà è una forma di vita eterna. Alla fine l’angelo fu costretto a inventare uno stratagemma. Provocò un fruscio in un albero del giardino reale. Davide salì su una scala per vedere cosa producesse quel rumore. Un piolo della scala si ruppe. Davide cadde, e per un momento smise di studiare. In quel momento morì (Shabbat 30a-b).

Di cosa parla questa storia? Al livello più semplice, è il modo dei saggi di reimmaginare re Davide meno come un eroe militare (il più grande re di Israele), e più come un penitente e studioso di Torà (si noti che diversi Salmi, in particolare il 1, il 19 e il 119, sono poemi di lode allo studio della Torà). Ma a un livello più profondo sembra dire di più. Davide qui simboleggia il popolo ebraico.

Finché il popolo ebraico non smette mai di studiare, esso non morirà. L’equivalente nazionale dell’Angelo della Morte – la legge secondo cui tutte le nazioni, per quanto grandi, alla fine declinano e cadono – non si applica a un popolo che non smette mai di studiare, non dimenticando mai chi è e perché. Ecco perché la Torà si conclude con l’ultimo comando – continuare a scrivere e studiare la Torà. E questo è esemplificato nella splendida usanza, a Simchat Torà, di passare immediatamente dalla lettura della fine della Torà alla lettura dell’inizio. L’ultima parola della Torà è Yisrael; l’ultima lettera è una lamed. La prima parola della Torà è Bereshit; la prima lettera è beit. Lamed seguita da beit forma lev, “cuore.”

Finché il popolo ebraico non smetterà mai di studiare, il cuore ebraico non smetterà mai di battere. Mai un popolo ha amato un libro di più. Mai un libro ha sostenuto un popolo più a lungo o lo ha sollevato più in alto.

Scritto da Rabbi Sacks nel 2012