Parashat Vayelech. Bisogna rendere la Torà nuova in ogni generazione

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Alla fine della sua vita, dopo aver dato agli israeliti per ordine di Dio 612, precetti Mosè diede loro la mitzvah finale: “Ora scrivete per voi questa cantica e insegnala al popolo di Israele. Ponetegliela  nella loro bocca, affinché questa cantica possa essere la Mia testimonianza contro il popolo di Israele” (Deut. 31:19).

Secondo il semplice senso del verso, Dio stava parlando con Mosè e Giosuè si riferiva alla cantica nel capitolo seguente, tuttavia, la tradizione orale le diede un’interpretazione diversa e molto più ampia, comprendendola come un comando per ogni ebreo di scrivere, o almeno prendere parte alla scrittura, di un Sefer Torah:
“Rabbah disse: anche se i nostri antenati ci hanno lasciato una pergamena della Torah, è nostro dovere religioso scriverne una per noi stessi. La logica dell’interpretazione sembra essere, in primo luogo, che la frase “scrivi per te stesso” potrebbe essere interpretata come riferita ad ogni israelita (Ibn Ezra), non solo a Mosè e Giosuè”.
Secondo, il brano prosegue dicendo (Deut. 31:24): “Mosè finì di scrivere nel libro le parole di questa legge dall’inizio alla fine”.
Il Talmud offre una terza ragione.  Il verso prosegue dicendo: “Che questa cantica possa essere la Mia testimonianza contro il popolo” – implicando la Torah nel suo insieme.
Così si comprende che il messaggio finale di Mosè agli israeliti era: “Non è sufficiente che tu abbia ricevuto la Torah da me.  Devi renderla nuova in ogni generazione. ”L’alleanza non doveva invecchiare.  Doveva essere periodicamente rinnovata. È così che l’ebraismo, una religione quasi priva di oggetti sacri (icone, reliquie), arriva a dotare la pergamena della Torah di un’entità fisica di santità.
Credo che l’ebraismo sia la storia di una relazione amorosa tra un popolo e un libro, il Libro dei libri.
Qual è, però è il significato della parola “cantica” (shira): “Ora scrivete per voi questa cantica”?  La parola shirà appare cinque volte in questo passaggio.  È chiaramente una parola chiave.  Perché?
Su questo, due studiosi del diciannovesimo secolo hanno offerto spiegazioni sorprendenti.
Il Netziv (Rabbi Naftali Zvi Yehuda di Berlino, 1816-1893, una delle grandi teste della yeshiva del diciannovesimo secolo) la interpreta nel senso che l’intera Torah dovrebbe essere letta come poesia, non come prosa;  la parola shirà in ebraico significa sia una cantica, che una poesia.  A dire il vero, la maggior parte della Torah è scritta in prosa, ma il Netziv ha sostenuto che ha due caratteristiche della poesia:
1) è allusiva piuttosto che esplicita, lascia non detto più di quanto si dice.  2) come la poesia, accenna a serbatoi di significato più profondi, a volte mediante l’uso di una parola insolita o una costruzione di frasi.
La prosa descrittiva porta il suo significato in superficie.
La Torah, come la poesia, non lo fa, la narrazione biblica è semplice e discreta.
I punti decisivi della sola narrativa sono enfatizzati, ciò che sta in mezzo è inesistente;  il tempo e il luogo sono indefiniti e richiedono interpretazione;  pensieri e sentimenti rimangono inespressi, suggeriti solo dal silenzio e dai discorsi frammentari;  il tutto, permeato della più inesauribile suspense e diretto verso un unico obiettivo, che rimane misterioso e “pieno di sfondo”.
Un aspetto completamente diverso è accennato dal rabbino Yechiel Michel Epstein, autore del codice alachico HaShulchan Aruch. Epstein sottolinea che la letteratura rabbinica è piena di argomenti, sui quali i Saggi dissero: “Queste e quelle sono le parole del Dio vivente”. Questo, dice Epstein, è una delle ragioni per cui la Torah è chiamata “la cantica”- perché una cantica diventa più bella quando viene segnata per molte voci intrecciate in armonie complesse.
Vorrei suggerire una terza dimensione.  Il 613 ° precetto non riguarda semplicemente la Torah, ma il dovere di rendere la Torah nuova in ogni generazione.  Per far rivivere la Torà, non è sufficiente trasmetterla cognitivamente- come semplice storia e legge.  Deve parlarci in modo affettivo, emotivo.
L’ebraismo è una religione di parole, e tuttavia ogni volta che il linguaggio dell’ebraismo aspira allo spirituale, si rompe nel canto, come se le stesse parole cercassero di sfuggire alla forza gravitazionale di significati finiti.
C’è qualcosa nella melodia intimista che è una realtà al di là della nostra comprensione.
Le parole sono il linguaggio della mente.  La musica è il linguaggio dell’anima.
Il 613° precetto, per rendere la Torah nuova in ogni generazione, simboleggia il fatto che sebbene la Torah sia stata data una volta, deve essere ricevuta molte volte, poiché ognuno di noi, attraverso il nostro studio e la nostra pratica, si sforza di riconquistare la voce incontaminata ascoltata dal Monte Sinai.  Ciò richiede emozione, non solo intelletto.  Significa trattare la Torah non solo come le parole lette, ma anche come una melodia cantata.  La Torah è il libretto di Dio, e noi, il popolo ebraico, siamo il suo coro, gli artisti della sua sinfonia corale.  E sebbene quando gli ebrei parlano spesso discutono, quando cantano, cantano in armonia, come hanno fatto gli israeliti sul Mar Rosso, perché come ho detto la musica è il linguaggio dell’anima e, attraverso il livello dell’anima, gli ebrei entrano nell’unità del Divino che trascende le opposizioni dei mondi inferiori.
Di Rabby J. Sacks