Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Chi era il figlio maggiore? E cosa implica questo nel caso di Esaù e Giacobbe? La sottigliezza è tale che non le notiamo all’inizio. Solo più tardi, quando la narrazione non procede come ci aspettavamo, siamo costretti a tornare indietro e notare ciò che inizialmente ci era sfuggito: che le parole udite da Rebecca possono significare “il maggiore servirà il minore” oppure “il minore servirà il maggiore.” (Josè de Ribera “Isacco benedice Giacobbe”).
Rebecca, fino ad allora sterile, rimase incinta. Soffrendo dolori acuti, “andò a consultare il Signore” [vatelech lidrosh et Hashem] (Bereshit 25:22). La spiegazione che ricevette fu che portava in grembo due gemelli che si scontravano nel suo ventre. Erano destinati a farlo ancora a lungo nel futuro: Due nazioni sono nel tuo grembo; Due popoli si separeranno da te. Un popolo sarà più forte dell’altro, è il maggiore servirà il minore [ve-rav ya’avod tsa’ir]. (Bereshit 25:23)
Alla fine i gemelli nacquero – per primo Esaù, poi Giacobbe (la cui mano teneva il calcagno del fratello). Memore della profezia che aveva ricevuto, Rebecca favorì il figlio minore, Giacobbe. Anni dopo, lo convinse a coprirsi con gli abiti di Esaù e a prendere la benedizione che Isacco intendeva dare al figlio maggiore. Un verso di quella benedizione diceva: “Ti servano i popoli; si prostrino a te le nazioni. Sii signore dei tuoi fratelli, e si prostrino a te i figli di tua madre.” (Bereshit 27:29) La profezia è stata adempiuta. La benedizione di Isacco non può significare nient’altro che ciò che era stato rivelato a Rebecca prima che i due bambini nascessero, cioè che “il maggiore servirà il minore”. La storia sembra aver raggiunto la sua conclusione, o così pare, fino a questo punto.
Ma la narrazione biblica non è ciò che sembra. Seguono due eventi che sovvertono tutto ciò che eravamo stati indotti ad aspettarci.
Il primo avviene quando Esaù arriva e scopre che Giacobbe lo ha ingannato privandolo della sua benedizione. Mosso dal suo tormento, Isacco gli dà una benedizione, una delle cui clausole è: della tua spada vivrai, e tuo fratello servirai; ma quando ti ribellerai, spezzerai il suo giogo dal tuo collo. (Bereshit 27:40)
Questo non è ciò che ci aspettavamo. Il maggiore non servirà il minore per sempre.
La seconda scena, molti anni dopo, avviene quando i due fratelli si incontrano dopo una lunga separazione. Giacobbe è terrorizzato dall’incontro. Era fuggito da casa anni prima perché Esaù aveva giurato di ucciderlo. Solo dopo una lunga serie di preparativi e una lotta notturna in solitudine riesce ad affrontare Esaù con una certa calma. Si prostra davanti a lui sette volte. Per sette volte lo chiama “mio signore”. Per cinque volte si riferisce a sé stesso come “tuo servo”. I ruoli si sono invertiti. Esaù non diventa il servo di Giacobbe. Al contrario, è Giacobbe che parla di sé come servo di Esaù. Ma questo non può essere. Le parole udite da Rebecca quando “andò a consultare il Signore” suggerivano esattamente il contrario, cioè che “il maggiore servirà il minore”. Ci troviamo di fronte a una dissonanza cognitiva.
Più precisamente, abbiamo qui un esempio di uno dei più notevoli strumenti narrativi della Torà: il potere del futuro di trasformare la nostra comprensione del passato. Questa è l’essenza del Midrash. Nuove situazioni rivelano retrospettivamente nuovi significati nel testo. Il presente non è mai pienamente determinato dal presente. A volte solo più tardi comprendiamo ciò che accade ora.
Questo è il significato della grande rivelazione di Dio a Mosè in Shemot 33:23, dove Dio dice che solo la Sua schiena può essere vista – il che significa che la Sua Presenza può essere percepita solo guardando indietro nel passato; non può mai essere conosciuta o prevista in anticipo. L’indeterminatezza del significato in un dato momento è ciò che conferisce al testo biblico la sua apertura a interpretazioni sempre nuove.
Ora vediamo che questa non è un’idea inventata dai Maestri. Esiste già nella Torà stessa. Le parole che Rebecca udì sembravano significare una cosa al momento. Più tardi si scoprirà che significavano qualcos’altro.
La frase ve-rav ya‘avod tsair sembra semplici: “il maggiore servirà il minore.” Tuttavia, ritornando su di essa alla luce degli eventi successivi, scopriamo che non è affatto chiara. Contiene molte ambiguità.
La prima (notata da Radak e Rav Yosef Ibn Kaspi) è che manca la parola et, che segnala l’oggetto del verbo. Normalmente, in ebraico biblico il soggetto precede e l’oggetto segue il verbo, ma non sempre. In Giobbe 14:19, ad esempio, le parole avanim shachaku mayim significano “l’acqua consuma le pietre”, non “le pietre consumano l’acqua”. Così la frase potrebbe significare “il maggiore servirà il minore” ma potrebbe anche significare “il minore servirà il maggiore”. Certo, quest’ultima sarebbe ebraico poetico più che prosa convenzionale, ma questo è proprio ciò che è: un poema.
La seconda è che rav e tsa’ir non sono opposti, fatto che viene nascosto dalla traduzione inglese di rav come “maggiore”. L’opposto di tsa’ir (“minore”) è bechir (“maggiore” o “primogenito”). Rav non significa “maggiore”: significa “grande” o forse “capo”. L’accostamento di due termini come se fossero opposti, quando non lo sono – gli opposti sarebbero stati bechir/tsa’ir oppure rav/me’at – destabilizza ulteriormente il significato. Chi era il rav? Il maggiore? Il leader? Il capo? Il più numeroso? La parola potrebbe significare uno qualsiasi di questi.
La terza – non parte del testo, ma della tradizione successiva – è la notazione musicale. Il modo normale di notare queste tre parole sarebbe mercha-tipcha-sof passuk. Questo supporterebbe la lettura: “il maggiore servirà il minore”. In realtà, però, sono notate tipcha-mercha-sof passuk – suggerendo: “il maggiore, lo servirà il minore”; cioè: “il minore servirà il maggiore”.
Un episodio successivo aggiunge un altro elemento retrospettivo di dubbio. Vi è un secondo caso in Genesi della nascita di gemelli, quelli di Tamar. Il passo ricorda chiaramente la storia di Esaù e Giacobbe: Quando venne per lei il momento di partorire, ecco che c’erano due gemelli nel suo grembo. Mentre era in travaglio, uno dei bambini mise fuori una mano, e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò al suo polso dicendo: “Questo è uscito per primo.” Ma egli ritirò la mano e allora nacque suo fratello. Lei disse: “Perchè hai fatto irruzione!” Così fu chiamato Peretz. Poi nacque suo fratello con il filo scarlatto al polso. Fu chiamato Zerah.
(Bereshit 38:27-30)
Chi allora era il maggiore? E cosa implica questo nel caso di Esaù e Giacobbe? Queste molteplici ambiguità non sono accidentali, ma parte integrante del testo. La sottigliezza è tale che non le notiamo all’inizio. Solo più tardi, quando la narrazione non procede come ci aspettavamo, siamo costretti a tornare indietro e notare ciò che inizialmente ci era sfuggito: che le parole udite da Rebecca possono significare “il maggiore servirà il minore” oppure “il minore servirà il maggiore.”
Ora varie cose diventano chiare. La prima è che questo è un raro esempio nella Torà di un oracolo, anziché una profezia (questo è probabilmente il senso della parola chiddot in Bamidbar 12:8, dove si parla di Mosè: “Con lui parlo bocca a bocca, apertamente e non in chiddot” – di solito tradotte come “enigmi” o “oscure sentenze”). Gli oracoli – una forma di comunicazione soprannaturale comune nel mondo antico – erano normalmente oscuri e criptici, a differenza della forma usuale della profezia israelita. Questo potrebbe essere il significato tecnico della frase “andò a consultare il Signore”, che aveva lasciato perplessi i commentatori medievali.
La seconda – ed è fondamentale per comprendere Bereshit – è che il futuro non è mai lineare come siamo indotti a credere.
Ad Abramo vengono promessi molti figli, ma ha cent’anni quando nasce Isacco. Ai patriarchi viene promessa una terra, ma non la possiedono nella loro vita. Il percorso del popolo ebraico – pur avendo una meta – è lungo e pieno di deviazioni e ostacoli. Giacobbe servirà o sarà servito? Non lo sappiamo. Solo dopo una lunga e enigmatica lotta, in solitudine nella notte, Giacobbe riceve il nome Israele, che significa “colui che lotta con Dio e con gli uomini e prevale.”
Il messaggio più importante di questo testo è insieme letterario e teologico. Il futuro influenza la nostra comprensione del passato. Siamo parte di una storia di cui l’ultimo capitolo non è ancora stato scritto. Questo dipende da noi, come dipese da Giacobbe.
di Rabbi Jonathan Sacks zzl



