Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Come menzionato in una precedente Covenant & Conversation*, vi era un dibattito in corso tra i Saggi sul fatto se il nazir – le cui leggi sono delineate nella parashà di questa settimana – dovesse essere lodato oppure no.
Ricordiamo che il nazir era qualcuno che volontariamente, di solito per un periodo specificato, intraprendeva una forma speciale di santità. Questo significava che gli era proibito consumare vino o prodotti dell’uva, tagliarsi i capelli e contaminarsi entrando in contatto con i morti.
Il nazireato era essenzialmente una rinuncia al desiderio. Perché qualcuno avrebbe scelto di fare ciò non è chiaro. Potrebbe essere che volesse proteggersi dall’ubriachezza o curarsi dall’alcolismo. Potrebbe darsi che volesse sperimentare una forma più elevata di santità. Essendogli vietato il contatto con i morti, anche con un parente stretto, era sotto questo aspetto nella stessa posizione del Sommo Sacerdote. Diventare nazir era un modo in cui un non-kohen poteva adottare un comportamento simile a quello dei kohanim. Alcuni Saggi sostenevano che la giustapposizione della legge del nazir con quella della sotah, la donna sospettata di adulterio, suggeriva il fatto che vi erano persone che diventavano nezirim per proteggersi dall’immoralità sessuale. L’alcol sopprime le inibizioni e aumenta il desiderio sessuale.
Comunque sia, vi erano opinioni contrastanti sul fatto che fosse una cosa buona o cattiva diventare un nazir. Da una parte la Torà lo chiama “santo per Dio” (Numeri 6:8). Dall’altra, al termine del suo periodo di astinenza, gli viene comandato di portare un’offerta per il peccato (Numeri 6:13–14). Da ciò, Rabbi Eliezer Hakappar Berebi** trasse la seguente deduzione:
Qual è il significato dell’espressione: “E farà espiazione per lui, perché ha peccato contro l’anima [di solito tradotto come ‘entrando in contatto con i morti’]”? (Numeri 6:11) Contro quale anima ha peccato? Dobbiamo concludere che si riferisce al fatto che si è negato il piacere del vino. Da ciò possiamo dedurre che se uno si nega il piacere del vino è chiamato peccatore, a maggior ragione lo è chi si nega altri piaceri della vita. Ne consegue che colui che si mantiene a digiuno è chiamato peccatore. (Ta’anit 11a; Nedarim 10a)
Chiaramente Rabbi Eliezer Hakappar sta conducendo una polemica contro l’ascetismo nella vita ebraica. Non sappiamo a quali gruppi potesse riferirsi. Molti dei primi cristiani erano asceti. Così anche, in qualche misura, i membri della setta di Qumran che conosciamo attraverso i Rotoli del Mar Morto. Persone sante in molte religioni hanno scelto, nella ricerca della purezza spirituale, di ritirarsi dal mondo, dai suoi piaceri e dalle sue tentazioni, digiunando, affliggendosi e vivendo in grotte, ritiri o monasteri.
Nel Medioevo vi erano ebrei che adottavano pratiche di autodisciplina – tra loro i Chassidei Ashkenaz, i Pietisti dell’Europa settentrionale, così come molti ebrei nei paesi islamici. È difficile non vedere in questi modelli di comportamento almeno una certa influenza dell’ambiente non ebraico. I Chassidei Ashkenaz, che fiorirono durante il periodo delle Crociate, vivevano tra cristiani profondamente pii e mortificanti. I loro corrispettivi del sud avrebbero avuto familiarità con il Sufismo, il movimento mistico dell’Islam.
L’ambivalenza degli ebrei verso la vita di autodisciplina può quindi risiedere nel sospetto che essa sia entrata nel giudaismo dall’esterno. Vi erano movimenti nei primi secoli dell’era volgare sia in Occidente (Grecia) che in Oriente (Iran) che vedevano il mondo fisico come un luogo di corruzione e conflitto. Erano dualisti, sostenendo che il vero Dio non era il creatore dell’universo e non poteva essere raggiunto all’interno dell’universo. Il mondo fisico era opera di una divinità inferiore e malvagia. Di conseguenza, la santità significava ritirarsi dal mondo fisico, dai suoi piaceri, appetiti e desideri. I due movimenti più noti che sostennero questa visione furono lo Gnosticismo in Occidente e il Manicheismo in Oriente. Così, almeno parte della valutazione negativa del nazir potrebbe essere stata guidata dal desiderio di scoraggiare gli ebrei dall’imitare tendenze non ebraiche presenti nel Cristianesimo e nell’Islam.
Ciò che è notevole, tuttavia, è la posizione di Maimonide, che sostiene entrambe le visioni, positiva e negativa. Nelle Leggi sul Carattere Etico, Maimonide adotta la posizione negativa di Rabbi Eliezer Hakappar:
“Una persona può dire: ‘Desiderio, onore e simili sono vie cattive da seguire e allontanano una persona dal mondo, quindi mi separerò completamente da esse e andrò all’estremo opposto.’ Di conseguenza, non mangia carne né beve vino, né prende moglie né vive in una casa decorosa né indossa abiti decorosi… Anche questo è male, ed è proibito scegliere questa via.” (Hilchot De’ot 3:1)
Eppure, nello stesso libro, il Mishneh Torà, scrive: “Chiunque faccia voto a Dio [di diventare nazir] per via della santità, fa bene ed è degno di lode… In verità, la Scrittura lo considera pari a un Profeta.” (Hilchot Nezirut 10:14)
Come può un autore adottare una posizione così contraddittoria – per non parlare di uno tanto risolutamente logico come Maimonide?
La risposta è profonda. Secondo Maimonide, non c’è un solo modello di vita virtuosa, ma due. Li chiama rispettivamente la via del santo (chassid) e quella del saggio (chacham). Il santo è una persona degli estremi. Maimonide definisce chessed come comportamento estremo – comportamento buono, certo, ma condotta che eccede ciò che la giustizia rigorosa richiede (Guida dei Perplessi III, cap. 52). Così, ad esempio, “Se uno evita l’arroganza al massimo grado e diventa estremamente umile, è chiamato santo (chassid)” (Hilchot De’ot 1:5).
Il saggio è un tipo completamente diverso di persona, che segue la “via di mezzo”, la “via aurea” della moderazione e dell’equilibrio. Evita gli estremi della codardia da una parte, della temerarietà dall’altra, e così acquisisce la virtù del coraggio. Il saggio evita sia l’avarizia sia la rinuncia alla ricchezza, l’accumulare o il dare via tutto ciò che possiede, e così non diventa né avaro né sconsiderato, ma generoso. Sa dei pericoli gemelli dell’eccesso e della carenza. Il saggio valuta le pressioni contrastanti ed evita gli estremi.
Questi non sono solo due tipi di persone, ma due modi di comprendere la vita morale stessa. L’obiettivo della moralità è raggiungere la perfezione personale? O è creare relazioni armoniose e una società decente, giusta e compassionevole? La risposta intuitiva della maggior parte delle persone sarebbe: entrambe le cose. Ed è ciò che rende Maimonide un pensatore così acuto. Egli capisce che non si possono avere entrambe – che in realtà si tratta di imprese diverse.
Un santo può dare via tutto il suo denaro ai poveri. Ma allora, che dire del sostegno ai membri della propria famiglia? Un santo può rifiutarsi di combattere in battaglia. Ma che dire dei concittadini del santo? Un santo può perdonare tutti i crimini commessi contro di lui. Ma che dire della legge e della giustizia? I santi sono persone supremamente virtuose, considerate come individui. Ma non si può costruire una società fatta solo di santi. In effetti, i santi non sono davvero interessati alla società. Hanno scelto un cammino diverso, solitario, auto-segregante. Stanno cercando la salvezza personale piuttosto che la redenzione collettiva.
È questa profonda intuizione che portò Maimonide alle sue valutazioni apparentemente contraddittorie del nazir. Il nazir ha scelto, almeno per un periodo, di adottare una vita di estrema rinuncia. È un santo, un chassid. Ha adottato il cammino della perfezione personale. Questo è nobile, lodevole, un ideale elevato.
Ma non è la via del saggio – e hai bisogno di saggi se vuoi perfezionare la società. Il motivo per cui il saggio non è un estremista è perché si rende conto che vi sono altre persone in gioco. Ci sono i membri della propria famiglia; ci sono gli altri all’interno della propria comunità; ci sono colleghi di lavoro; c’è un paese da difendere e una nazione da aiutare a costruire. Il saggio sa che è pericoloso, persino moralmente compiaciuto, abbandonare tutti questi impegni per inseguire una vita di virtù solitaria. Perché Dio ci chiama a vivere nel mondo, non a fuggirne; nella società, non nella solitudine; a sforzarci di creare un equilibrio tra le pressioni contrastanti su di noi, non a concentrarci su alcune trascurando le altre. Perciò, mentre dal punto di vista personale il nazir è un santo, dal punto di vista sociale è, almeno figurativamente, un “peccatore” che deve portare un’offerta espiatoria.
Il giudaismo fa spazio agli individui che vogliono fuggire dalle tentazioni del mondo. L’esempio supremo è il nazir. Ma questa è un’eccezione, non la norma. Essere un chacham, un saggio, significa avere il coraggio di confrontarsi con il mondo, nonostante tutti i rischi spirituali, e aiutare a portare un frammento della Presenza Divina negli spazi condivisi della nostra vita collettiva.
Scritto da Rabbi Sacks nel 2012
* Covenant & Conversation è una risorsa per genitori, famiglie ed educatori per arricchire le conversazioni intergenerazionali sulla parasha settimanale, scritta da rabbi Sacks, adatta per essere discussa in famiglia attorno al tavolo dello Shabbat.
** anche conosciuto come Eliezer ben Hurcanus, è stato un rabbino e kohen (sacerdote) ebreo del I-II secolo AEV. Era uno dei Tanna, ovvero i saggi ebrei del periodo talmudico, ed è il sesto saggio più citato nella Mishnah. Fu un discepoli di RabbiYochanan Ben Zakkai e collega di Gamaliel II, di cui sposò la sorella (Imma Shalom), e di Joshua ben Hananiah.