Una scena della Parashà di Lech Lechà, nel dipinto di Joszef Molnar

Parashat Lech Lechà. Comunicare con D-o è anche pensare in ogni momento a come servirLo

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Leggiamo nella Parashat Lekh-Lekha di Avraham delle esperienze che fece quando si trasferì in Egitto, per sfuggire alle dure condizioni di siccità che colpirono la terra di Canaan. La Torah riferisce che i ministri del Faraone videro la moglie di Avraham, Sara, “va-yehalelu otah el Pharaoh” – “e la lodarono al Faraone” (12:15). Sara fu poi portata al palazzo del faraone, dopo di che Dio punì il faraone e la sua famiglia per l’intenzione che aveva di prendere in moglie Sara e avere rapporti intimi con lei, che era già moglie di Avraham.

Il significato diretto della frase “va-yehalelu otah el Pharaoh” è che i nobili del Faraone andarono da lui e gli descrissero la bellezza di Sara, e lui poi ordinò loro di portare Sara al palazzo. Rashi, tuttavia, interpreta questo verso in modo diverso. Spiega che gli ufficiali hanno parlato tra loro lodando l’aspettò di Sara, notando che era adatta per il re. Secondo Rashi, in realtà non parlarono al Faraone di Sara, ma parlarono piuttosto del suo aspetto attraente tra di loro, e poi procedettero a portarla dal Faraone.

Rashi è giunto probabilmente a questa conclusione, sulla base del fatto che la Torah non menziona il Faraone che ha dato l’ordine di portare Sara; sembra che questa sia stata l’iniziativa dei suoi ministri. Pertanto, Rashi capì che “va-yehalelu otah el Pharaoh” non significa che i ministri parlassero effettivamente al Faraone, ma piuttosto parlarono dell’idoneità di Sara per il Faraone, e poi decisero da soli – senza consultare il re – di portarla a il Palazzo.

Sembra che secondo Rashi i ministri del faraone che stavano pensando e discutendo degli interessi del re, erano considerati come se stessero parlando direttamente con lui. Quando abbiamo qualcuno nella nostra mente e ci preoccupiamo di soddisfare i desideri di quella persona, ciò equivale a una sorta di “comunicazione”, al punto in cui possiamo dire, in un certo senso, di parlare a quell’individuo. Proprio come quando diciamo che gli ufficiali del Faraone hanno elogiato Sara “a lui” anche se parlavano tra loro di lui, allo stesso modo, ci connettiamo alle persone anche quando non comunichiamo direttamente con loro, se abbiamo i loro bisogni e le loro preoccupazioni nella nostra mente.

Questo concetto, come alcuni hanno suggerito, può essere applicato anche al nostro rapporto con Dio. Ci connettiamo con Dio anche quando non Gli parliamo direttamente, tenendolo sempre nella nostra mente, pensando sempre a come possiamo servirlo al meglio delle nostre capacità. La nostra relazione con l’Onnipotente è forgiata non solo attraverso la preghiera, ma anche durante la giornata, considerando in ogni momento come Egli vuole che ci comportiamo. Anche questa mentalità è una forma di “comunicazione” grazie alla quale sviluppiamo uno stretto legame con il nostro Creatore.

Di Rav David Silverberg

(Foto: Jozsef Molnar, Il viaggio di Abramo da Ur a Canaaan)