Festival / La luce dello Shabbat è femminile

di Giovanna Rosadini Salom

«Lo Shabbat è profondamente legato al femminile fin dalla narrazione del racconto di Bereshit, la Genesi. Il Creatore plasma la donna, Eva, come ultima tra le creature: e poichè il disegno creazionale procede dal semplice al complesso, da ciò che è inanimato a ciò che è animato, la creazione del femminile suggella la fine dell’opera e ne è il coronamento. Dopo la creazione della donna Dio si ritira e dona agli esseri umani lo Shabbat. Non solo: Dio rivela nello Shabbat la sua parte femminile manifestandosi come Shechinà. E la Shechinà è la parte femminile, è la presenza di Dio immanente nel Creato, ovvero quando l’Altissimo sceglie di manifestarsi nella dimensione del Chesed, l’Amore, e della Misericordia, in ebraico la Rachmanut». Così Fiona Diwan apre l’incontro-dibattito avvenuto alle Gallerie d’Italia, giornalista, direttore dei media della Comunità ebraica di Milano. Sala piena, nonostante l’orario prandiale, martedì primo ottobre, per l’incontro “Shabbat è femminile”.

Io arrivo all’ultimo minuto, e rischio di non entrare, mi si dice che non ci sono più biglietti né posti; ma, spiegato che ho un’amica già dentro che mi sta tenendo il posto, riesco a farcela.  Una Fiona Diwan in gran forma sta introducendo l’evento, collegandolo contestualmente alle tematiche già affrontate in questo primo Festival della cultura ebraica dalle personalità che vi hanno preso parte.  Daniel Sibony, per esempio, che nella sua Lectio Magistralis del giorno prima ha sottolineato (come farà poco dopo Yarona Pinhas), come di riposo si parli all’inizio della Torà, nella Genesi, facendone uno dei pilastri portanti del pensiero ebraico, una componente fondamentale del processo creativo. Spazio sacro separato dal resto della settimana, lo Shabbat, introdotto dall’accensione per mano femminile dei lumi, è un giorno che mette al centro la figura della donna, come perno della famiglia e regista occulto di tutto ciò che la riguarda.

La parola passa quindi a Yarona Pinhas, studiosa di mistica ebraica, docente presso l’Orientale di Napoli e autrice di testi di cui forse il più conosciuto è La saggezza velata. Il femminile nella Torà (Giuntina 2004). E proprio a questo testo, che condensa le sue ricerche sul testo biblico, la Pinhas ha fatto riferimento nella trattazione del tema del Festival. Lo Shabbat è, in questo senso, la manifestazione della parte femminile di Dio, in quanto tempo interiore e della ricezione e dell’accettazione. Coincide con lo spazio dell’ascolto, arrivando al termine della settimana vissuta all’insegna di una dimensione pubblica, esteriore, ufficiale. Ecco dunque, arrivato il venerdì sera, si entra in un’altra dimensione attraverso la Cabbalat Shabbat, l’accoglienza del Sabato, con il canto liturgico Lehà dodì: “Vieni, mio amato, incontro alla sposa…”. La Shekhinà, sarebbe a dire, che all’entrata del Sabato ritorna dall’esilio e sale con i suoi figli nei cieli dove si ricongiunge al suo sposo, Kadosh Baruch Hu. La metafora è evidente: Shabbat è quel tempo della settimana in cui si ritrova la pienezza dell’essere, attraverso il ricongiungimento di tutte le sue componenti, terrena e celeste, maschile e femminile, spirituale e materiale. Così, tornando alla condizione di perfetta androginia dell’Eden, si ristabilisce l’equilibrio perduto fra uomo, donna, Dio. D’altronde qabbalà, dalla radice q-b-l, oltre al significato primario di “accettazione” significa anche “parallelo”: e a Yarona Pinhas, appassionata studiosa di questa disciplina, preme mettere l’accento su una modalità conoscitiva che reintegri fra loro le entità tradizionalmente tenute separate; solo così ci si potrà riappropriare di un sistema conoscitivo completo, che possa guidarci attraverso i misteri dell’animo umano. A proposito di completezza, la parola ebraica che la esprime, Shalem, è all’origine di Shalom, “pace”.  La pace deriva dalla pienezza, da una non-mancanza. E proprio la serenità, un sentimento di riconciliazione col mondo e di elevazione spirituale, sono le conquiste dello Shabbat, che non è una rinuncia, ma una conquista, un dono, l’ossatura nascosta del tempo feriale, allo stesso modo i cui la donna, generata da una costola, è l’ossatura portante del genere umano, “nascosta” ma essenziale, e così come si dice che la Torà sia stata scritta “fuoco nero su fuoco bianco”, ovvero l’evidenza delle lettere  scure sullo sfondo bianco della pagina… e la Cabala è, appunto, la parte velata, nascosta della Torà, che ne completa il livello esplicito e manifesto.

Al concetto di Shabbat come dono e conquista, che ci salva dalla necessità del fare, si riallaccia anche Gheula Canarutto Nemni per iniziare il suo intervento. Autrice di un romanzo dichiaratamente autobiografico, (Non) si può avere tutto, ha descritto le difficoltà di una giovane donna in carriera, ebrea ortodossa laureata in una prestigiosa università italiana, per tenersi stretta la famiglia e il lavoro. “Come fai? Mi domandano donne che hanno optato per una vita priva di vincoli familiari. Come farei senza, rispondo. Perché in questa vita delimitata dalle esigenze di altri esseri umani (Gheula ha sette figli), in questo rumore di fondo che si interrompe solo per qualche ora notturna, in questi chili di bucati e spaghetti da gestire ogni giorno, trovo rinnovata la mia libertà di donna”. La volontà di tenere insieme le cose è il principale strumento, che rende possibili cose apparentemente inarrivabili – come, ha proseguito a raccontare Gheula, è narrato per la storia di Mosè, tratto in salvo dalla figlia del Faraone che arriva a ghermire la cesta che lo contiene grazie a un miracoloso allungarsi del suo braccio. La mezz’ora che precede l’entrata del sabato, ha aggiunto Gheula, è la più frenetica di tutta la settimana: chili di hallà da sfornare, cucina e tavola da appontare, figli da preparare… “E’ il momento in cui finisco per litigare con mezza famiglia almeno”.  Ma poi, la famiglia riunita, la presenza degli amici ospiti e, finalmente, poter staccare la spina da tutto (non penso più a quante copie del libro ho venduto, alle scadenze del lavoro, alle incombenze svolte durante la settimana”) ripagano ampiamente ogni fatica… Lo Shabbat ci riporta alle cose essenziali, agli affetti, a una dimensione di ascolto e riflessione, a guardarci dentro e all’anelito per una superiore dimensione spirituale… “Si dice che, per le donne, si aprano i cancelli del cielo, quando impastano la hallà e accendono le candele del Sabato,simboli dell’anima che si eleva…”.

Il numeroso pubblico, eterogeneo quanto a compresenza di ebrei e non e partecipazione di entrambi i sessi, ha vivacemente animato il dibattito finale, incuriosito ma anche garbatamente polemico, riguardo alle componenti misogine di certa tradizione ebraica. Così, è stata molto dibattuta la questione del ruolo femminile in relazione allo studio dei testi sacri, ed è stato notato come oggi gli spazi per l’apporto femminile si siano ampliati, realtà testimoniata dalla stessa Yarona Pinhas. Mentre è stata stigmatizzata l’affermazione di Gheula Canarutto che riportava l’esistenza in Israele di facoltà universitarie “femminili”, e pertanto dotate di asili nido, come pedagogia e altre, e anche la sua difesa della famiglia tradizionale rispetto alle nuove realtà dei matrimoni gay, per quanto, ha chiosato Fiona Diwan, ”I figli sono, in definitiva, di chi li cresce…”.Concluso l’incontro, tutti al Bookshop, che, per quanto fornito, ha esaurito velocemente i libri delle protagoniste dell’evento, per fortuna rintracciabili anche online.