Le pestilenze e il mondo ebraico, il dibattito su Zoom

di Nathan Greppi
Un tema tanto interessante quanto tristemente attuale quello del dibattito organizzato dalla Comunità Ebraica di Milano su Zoom domenica 3 maggio, dal titolo Le pestilenze e il mondo ebraico.

L’incontro è stato introdotto da Paola Hazan di Kesher e moderato da Luciano Bassani, Vice-assessore alla Cultura della Comunità, il quale ha spiegato che “nella Bibbia, nella Parashà Metzorà, il lebbroso veniva isolato una volta diagnosticata la malattia. Poiché la malattia aveva una portata spirituale oltre che fisica, porre il malato in quarantena non era solo una precauzione igienica, ma un atto con uno scopo morale. Non vivremo mai in un mondo asettico, saremo sempre a contatto con nemici invisibili, ma possiamo cercare di sconfiggere i loro migliori alleati: la paura, il sospetto e l’odio.”

Rav Arbib: l’epidemia e il senso della sofferenza

Il primo relatore a parlare è stato Rav Alfonso Arbib, rabbino capo della Comunità di Milano, che ha ricordato come “le epidemie hanno un impatto terribile; non solo per le persecuzioni,” ricordando che quelle avvenute dopo la Peste Nera furono tra le peggiori di tutta la storia ebraica, “ma anche perché colpivano gli ebrei in maniera molto forte.” Sul come affrontarle da un punto di vista religioso, ha spiegato: “c’è un problema di Halakhah, perché l’epidemia ha delle conseguenze sulla nostra vita ebraica: durante un epidemia di colera avvenuta in Lituania nella seconda metà dell’800, ad esempio, il rabbino dell’epoca, Rav Israel Salanter, disse al pubblico che era vietato fare il digiuno per Yom Kippur, in modo da rimanere in forze per l’epidemia. Si fece persino portare del cibo al Tempio che mangiò davanti al pubblico; il messaggio era che la salvaguardia della vita viene prima di ogni cosa.”

Un altro problema, ha spiegato, “è di visione: per chi crede in D-o e nella provvidenza divina l’esistenza delle epidemie è un problema. Non si capisce il senso della sofferenza, su cui è incentrato il Libro di Giobbe, in cui ci si pone il problema della sofferenza e dell’ingiustizia. Verso la fine del libro si dà una possibile risposta: l’idea è che attraverso la malattia D-o ci manda un messaggio, che però non capiamo. Rav Soloveitchik, un grande pensatore dell’800, dice che nessuno può dare l’interpretazione giusta del messaggio, ma ognuno di noi può capire che messaggio arriva a lui personalmente.”

Stefano Arieti: l’analisi storica

Per analizzare l’argomento dal punto di vista storico è intervenuto Stefano Arieti, docente di Storia della Medicina all’Università di Bologna, che si è servito di diverse slide per la sua esposizione: “In Spagna ancora alla fine del ‘700 gli storici attribuivano la diffusione della sifilide agli ebrei e ai marrani. Difficile dire quale sia stato il tasso di mortalità nella popolazione ebraica, statistiche in merito, almeno fino all’inizio del ‘900, sono pressoché inesistenti.” Tuttavia, dai dati raccolti nel 1905 sulla diffusione tra gli ebrei della sifilide, in Ungheria e in Ucraina, dimostra che era nettamente inferiore rispetto al resto della popolazione.

Dalle statistiche e dalle fonti storiche, emergono scenari molto particolari: ad esempio, non è vero, come pensavano in molti all’epoca, che gli ebrei fossero meno colpiti dalla Peste di Roma del 1656, tanto che nel Lazzaretto morirono il 78% degli ebrei contro il 61% dei cristiani. Mentre durante l’epidemia di colera del 1855, a Ferrara furono contagiati il 5,1% dei cristiani contro solo lo 0,9% degli ebrei; tuttavia, la mortalità tra gli ebrei era del 92,8%, contro il 69,8% dei cristiani. Arieti ha spiegato che se in molti contesti gli ebrei erano meno colpiti dalle epidemie, ciò è dovuto a vari fattori: perché erano più abituati a lavarsi le mani, perché essendo già chiusi nei ghetti venivano meno a contatto con i malati, e per le maggiori conoscenze che acquisivano rispetto agli altri tramite gli scambi commerciali.

Alle spiegazioni di Arieti si sono alternate letture di brani sulla peste tratti da I Promessi Sposi, letto dall’attrice Marina Bassani; in particolare, ha citato un brano in cui il personaggio di Don Ferrante analizza con la logica la natura della peste in contrasto con le superstizioni dell’epoca, il che si lega al tema attuale del contrasto tra bufale ed esperti in ambito medico.

Rav Somekh: i 3 guai e le colpe degli uomini

Per concludere ha preso la parola il rabbino capo di Torino Rav Alberto Somekh, che ha citato una serie di sermoni di Rav Azaria Piccio, un rabbino veneziano vissuto tra ‘500 e ‘600: “In una derashà fa riferimento ai 3 guai che colpirono il mondo in quel momento: malattia, carestia e guerra. All’inizio della derashà indica quali sono le 4 indicazioni che i medici devono dare difronte a una malattia: diagnosi, causa, prognosi e terapia. Per i 3 guai fa leva sul comportamento della gente: per la malattia rimprovera i suoi correligionari delle loro intemperanze sessuali, per la carestia rimprovera loro di esercitare il prestito a interesse a iosa, proibito dalla Halakhah, il che ci richiama alla nostra situazione, dato che l’epidemia sta portando anche una crisi economica mondiale. Infine, per quanto riguarda la guerra, indica come causa l’abitudine delle persone di godere delle disgrazie altrui.”