Benny Morris alla GECE 2022: le cause profonde del conflitto arabo-israeliano e le conseguenze per il futuro

di Francesco Paolo La Bionda
Nel corso del ciclo di eventi del 18 settembre presso la Sinagoga Centrale di Milano per la Giornata europea della cultura ebraica, si è tenuto un incontro con Benny Morris, uno dei più eminenti storici israeliani, specializzato nel primo conflitto arabo-israeliano e massimo rappresentante della scuola storica israeliana “revisionista”, le cui tesi sono state lodate e criticate da entrambi gli schieramenti e hanno suscitato vivaci dibattiti. Intervistato da Niram Ferretti, nel corso dell’incontro Morris ha affrontato passato, presente e futuro di Israele.

Partendo proprio dal dibattito che la sua ricerca ha suscitato in patria e all’estero, Morris ha rimarcato come gli storici dovrebbero scrivere sulla base della documentazione. E sulla storia del primo conflitto arabo-israeliano, ha fatto notare, oggi abbiamo accesso agli archivi israeliani, britannici, americani e a quelli delle Nazioni Uniti, anche se quelli dei regimi arabi e dei palestinesi non sono purtroppo accessibili. Ha quindi ricordato come molti studiosi contrari alle sue tesi non siano però riuscite a smentirle, proprio perché costruite sulla base di documenti.

La doppia natura del conflitto arabo-israeliano

Il movimento nazionale palestinese ha rifiutato qualsiasi compromesso sulla condivisione del territorio con gli ebrei sin dagli anni Venti del secolo scorso, e continua a farlo anche oggi. Sia Hamas sia Fatah sono concordi su questo punto, ed è la ragione per cui la soluzione a due Stati è impraticabile. Non concepiscono altro che una Palestina interamente araba.

In tutto il mondo arabo, ha spiegato lo studioso, la politica resta intrecciata con la religione e quello tra Israele e i palestinesi è quindi un conflitto sia politico-territoriale sia religioso-culturale. A quest’ultimo riguardo, lo è sempre stato per gli arabi mentre lo è diventato maggiormente per gli ebrei nel corso del tempo. Del resto, ha fatto notare, il Corano stesso contiene diversi passaggi antisemiti e questo sentimento è stato parte dell’Islam sia dalle sue origini. Gli occidentali non capiscono la componente religiosa nell’ostilità araba verso gli ebrei. La differenza tra Hamas e Fatah su questo punto è solo che la prima è esplicita, la seconda si cela di più.

Il caso del Gran Muftì al-Ḥusaynī

Ferretti ha quindi chiesto allo studioso israeliano la sua opinione riguardo alle visioni storiche discordanti di Amīn al-Ḥusaynī, Gran Muftì di Gerusalemme dal 1921 al 1936 e principale leader palestinese fino al primo conflitto arabo-israeliano, alleato dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, antisemita e antisionista intransigente.

La figura di al-Ḥusaynī, ha raccontato Morris, è insolita perché si è trattato di un religioso alla testa di un movimento nazionalista, in una fase storica in cui il nazionalismo era sostanzialmente laico. Il Gran Muftì però usò il sentimento religioso per aizzare le folle palestinesi per scopi politici e, dopo aver istigato le rivolte antiebraiche del 1936 ed essere scappato in esilio, trovò una causa comune con i nazisti, vivendo a Berlino dal 1941 al 1945. Un’intesa costruita per la verità non solo sull’antisemitismo ma soprattutto sull’opposizione ai britannici, che all’epoca governavano la Palestina Mandataria.

Gli storici antisionisti ne hanno sminuito l’importanza come leader palestinese, una tesi ridicola per lo storico, che non ha dubbi sul fatto che al-Ḥusaynī sia stato il principale leader palestinese per lungo tempo. Riguardo alla sua autoidentificazione come leader del mondo arabo, ha specificato, si è trattato invece più che altro di una sua aspirazione, che avrebbe voluto realizzare durante col supporto dei nazisti.

I limiti degli accordi di Camp David e di Oslo

Ferretti ha quindi chiesto quale analisi storica si possa trarre oggi degli accordi di Camp David del 1978 tra Egitto e Israele e poi quelli di Oslo del 1993 e 1995. Di quanto sia successo durante i negoziati che hanno portato all’accordo di Camp David del 1978, ha spiegato Morris, come fonti abbiamo ancora solo i giornali e le memorie dei partecipanti, dato che gli atti non sono stati ancora desegretati.

Degli accordi di Oslo, ha proseguito, sappiamo invece che i palestinesi rifiutarono una proposta di soluzione a due stati che avrebbe assegnato ai palestinesi la striscia di Gaza, buona parte di Gerusalemme Est e il 95% della Cisgiordania. Arafat però, supportato da Abbas nella decisione, rifiutò qualunque idea di dividere la Palestina.

Il problema del diritto al ritorno e dell’intransigenza palestinese

Toccando le conseguenze presenti di problemi storici, Morris ha affrontato la questione del diritto al ritorno palestinese, spiegando come durante il conflitto del 1948, alcune centinaia di migliaia di palestinesi dovettero lasciare le proprie case, alcuni finendo come rifugiati interni in Israele e nei territori palestinesi, altri all’estero. A loro e, insolitamente, ai loro discendenti fu riconosciuto lo status di rifugiati a livello internazionale. Oggi però i rifugiati palestinesi sono diventati 5 o 6 milioni e il diritto al ritorno che rivendicano se esercitato porrebbe fine a Israele come Stato ebraico. I palestinesi da sempre insistono su questo punto, rifiutando l’alternativa di un risarcimento o di un diritto al ritorno limitato, sapendo che se Israele accettasse si condannerebbe e se continuasse a rifiutare, come ha sempre fatto, si scredita agli occhi dell’opinione pubblica occidentale.

Morris confessa di aver perso il suo iniziale sentimento di empatia nei confronti dei palestinesi dopo il 2000, quando si rese conto della loro indisponibilità a trovare un compromesso per la pace, e ammette che a causa di questo la fine dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e del blocco di Gaza, pur se auspicabile moralmente e comunque insostenibile sul lungo periodo, oggi sarebbe impossibile perché metterebbe Israele troppo in pericolo.

Una visione pessimista per il futuro

Lo storico ha confermato la sua analisi del 2004 in cui aveva definito gli arabi israeliani come “una bomba ad orologeria”, previsione che le rivolte nelle città miste dello scorso anno hanno confermato. Secondo Morris, benché godano di standard di vita elevati, restano ancorati al sentimento nazionalista che vuole tutta la terra sotto controllo arabo, e anche se non è detto che la situazione debba necessariamente esplodere del tutto, resta comunque la possibilità che avvenga.

In generale, ritiene che le violenze tra israeliani e palestinesi e arabi israeliani siano destinate ad aumentare in futuro, definendosi “un pessimista”, dato che solo una soluzione a due stati potrebbe davvero mettere fine al conflitto, soluzione che tuttavia oggi i palestinesi rendono impossibile e gli israeliani impraticabile.