Via Eupili: un tempio ortodosso dove le donne commentano la Torà

di Fiona Diwan

▶ Viaggio nelle sinagoghe di Milano 1a puntata: Beth Hakeneset Yoseph veEliahu

Informale e famigliare, inaugurato nel 1963, lo storico tempio di rito italiano conserva un’atmosfera da Piccola Comunità, dove anche le donne si sentono coinvolte nello studio e nel Davar Torà, e la maggior parte dei presenti partecipa alle tefillot. Inizia con via Eupili, un ciclo di articoli dedicato alle 18 sinagoghe milanesi

La primavera sorride e si compiace, assume i toni cremisi dei petali delle camelie e del meil di velluto che avvolge il rotolo del Sefer Torà. È buio, è la notte del dono della Torà, è Shavuot, dove per tutta la notte si discute e si dibatte fino alle prime ore del mattino, e chiunque può esporre il suo Davar Torà, almeno in queste stanze centenarie dove anche le donne possono farsi avanti e commentare. Sono passati 55 anni da quando il leggendario Tempio di via Eupili fu inaugurato, proprio a Shavuot del 1963, in questa stessa palazzina, lungo i freschi binari della ferrovia.
Ed è ancora sera, ma stavolta siamo in autunno: è tempo di danza in queste storiche mura sinagogali, è il giorno di Simchà Torà, i cinque Sefarim vorticano e ballano davanti all’Aron spalancato e sette sono le acafot gioiose, sette i giri che i rotoli ondeggianti tracciano nell’angusto spazio tra corridoio, sezione maschile e matroneo. In questo tempio, la sera di Simchà Torà, dopo aver attraversato la zona degli uomini, una delle acafot fa il giro del matroneo e si china generosa su signore e signorine che l’accolgono sulle note di un piyut scritto in tetrametri giambici forse da Shlomo Ibn Gvirol, forse da Yochanan ben Zakkai, forse da Chai Gaon: è forse una delle poesie sinagogali più poetiche che siano mai state scritte, è Adon Olam quello che viene cantato anche qui nella sezione delle donne.

Non accade ovunque. In questo tempio di via Eupili, le donne sono importanti, sono sapienti. Raccontano e parlano in pubblico, si lanciano in Derashot e Devar Torà pieni di echi letterari, suggestioni, erudizione, hanno facoltà di narrazione e commento alla Parashà della settimana. Dal matroneo le loro voci possono alzarsi e spiegare, scomodare Midrashim e Baraita. Il commento, lo studio, l’argomentare, qui non sono appannaggio solo maschile. E anche chi non è rabbino può preparare un Davar Torà ed esporlo durante lo Shabbat, dalla Tevà o, se donna, dal matroneo, o ancora nella sala adiacente, dopo il Kiddush.

Il tempio di via Eupili nasce ufficiosamente nel 1959, quando ancora qui vi dimorava la scuola: Elia Kopciowski, all’epoca non ancora rav, radunava alcune famiglie della zona nella mensa dei ragazzi e recitava la Tefillà. Quando nel 1963-64 la scuola ebraica traslocò in via Sally Mayer, il tempio assunse la forma attuale, coi mobili disegnati da Luciano Consigli. «I ragazzi del Benè Akiva si riunivano nella palazzina a fianco e il venerdì sera arrivavano al tempio per la tefillà di Shabbat. Tra loro c’ero anche io», ricorda rav Richetti.
Tra i più antichi di Milano, insieme a quello di via Cellini, di corso di Porta Romana e di Via Guastalla, il tempio di via Eupili incarna da sempre l’anima italiana della Comunità con il suo leggendario Siddur di rito italiano, quello del rabbino Dario Disegni, nella sua variante milanese. «Melodie, recitativi, canti, musicalità: qui c’è stata sempre una grande libertà di forme sonore, tutte peculiari nella loro ricchezza e varietà così tipicamente italiana. Melodie torinesi, romane, goriziane, triestine, livornesi, fiorentine… Ad esempio, l’Hallel viene cantato alla romana, così come lo insegnò Rav Kopciowski; l’Haftarà la si recita con l’uso di Torino, come hanno insegnato Annibale Momigliano e Ariel Finzi. Io stesso ho introdotto musiche friulane, visto che sono originario di Gorizia. Sebbene qui il rito sia un Benè Romì delle origini, ho voluto accogliere altre influenze e una vivacità nuova, canti e melodie sefardite, tunisine, ashkenazite. Ho voluto portare il mondo intero su questa tevà, ma sotto forma di note musicali», spiega ancora Rav Elia Richetti.
Nel tempo, i banchi di preghiera sono stati sostituiti con quelli costruiti in Israele, nel Kibbutz Lavì, in Galilea, luogo diventato celebre per i suoi arredi sinagogali (ancora oggi, da laggiù arrivano quasi tutti i mobili dei Bate’ Knesset di tutto il mondo). «Si celebravano anche matrimoni e bar mitzvà, via Eupili era un punto di riferimento anche per ebrei venuti dalla Turchia e dall’Egitto. Un tempio dove sono nati amori e amicizie di una vita».

«L’atmosfera è sempre stata informale, morbida: nessuno fa domande. Chi vuole viene e prega. Non c’è mai stato un hazan fisso, chiunque sia in grado di dire Tefillà lo può fare, fin dai tempi di rav Elia Kopciowski. In questo modo si crea una circolarità spontanea, una coralità. Un tempio per incoraggiare i giovani: si chiedeva loro, dopo il bar-mitzva, di recitare ogni anno la stessa parashà che avevano letto e questo poi avveniva puntualmente, per decenni. Un tempio intimo, quasi casalingo, pieno di semplicità. E oggi? C’è un clima incredibile, si è formato un gruppo molto bello di famiglie con bambini piccoli che vengono con regolarità», spiega un decano, Marco Ottolenghi, da poco trasferitosi in Israele.
«Un tempio decisamente familiare dove circola un grande affetto tra le persone e dove si respira un forte senso di appartenenza. Non c’è nessuna ostentazione sociale o show-off. Si sperimenta una capacità tutta italiana di non escludere nessuno, un clima caloroso, un grande abbraccio pieno di rispetto. Chi sale a Sefer si volge sempre verso la zona femminile perché questo è un tempio ortodosso dove le donne contano molto e vengono valorizzate (molte care amiche hanno fatto qui interessantissimi Divrei Torà). Una sinagoga dove tutti quelli che vengono dalla Scuola ebraica ritrovano quello spirito tipico dell’ebraismo italiano, quel modo peculiare di dire tefillà come lo insegnavano le morot alle elementari», spiega Rosi Gubbay, frequentatrice abituale.

«A Milano, è forse il tempio dove le donne si sentono più accolte. Il matroneo non è in alto, non è dietro ma è concepito allo stesso livello della sezione maschile, una mechitzà in vetro lo separa dalla tevà e dall’aron che sono posti nel mezzo», spiega Alisa Luzzatto, una habituèe da 13 anni. «Un’accoglienza mai giudicante. Ci sono sinagoghe in cui le donne sono lontane, non sono coinvolte né nella preghiera né nello studio. Ma in via Eupili, chi fa la derashà si rivolge sempre anche alle donne e io stessa, in più occasioni, ho studiato e pronunciato dei Divrei Torà. Qui si sta bene; vieni così come sei, nessuno ti giudica, nessuno esige da te, ci sono persone con gradi di osservanza diversi tra loro. I miei figli hanno fatto qui il bar-mitzvà e il bat-mitzvà. Ci siamo sentiti avvolti e conquistati».

Ma c’è una persona che ininterrottamente prega qui da 55 anni, un fedelissimo che non ha mai mancato uno shabbat, un veterano: è Eddie Olifson. «Venivo qui con mio padre fin da piccolo. Sono osservante, qui ho fatto il bar mitzvà e anche i miei tre figli. Teniamo aperto anche a luglio grazie a rav Richetti e c’è uno zoccolo duro di habituèes molto affiatato e caloroso; non è un caso che molte famiglie miste, insieme ai loro bambini, trovino in questa sinagoga una loro dimensione ebraica, sempre seguendo i crismi della Halachà s’intende. È un merito che qui vengano persone che, dopo anni di frequentazione, abbiano poi deciso di convertirsi. Oggi, molti di noi, assidui eupilini, hanno fatto l’Alyià, come Guido Sasson, Marco Ottolenghi, Raffaele Picciotto, e alcune colonne di questo tempio, come Ruben Castelnuovo, ahimè non più tra noi». Una chat su whatsapp tra tutti i frequentanti si occupa oggi di comunicare orari delle funzioni ed emergenze di minian, mentre settimanalmente viene redatto ex novo un originale commento alla parashà redatto da Ishai Richetti e distribuito a tutti.

«Ci vengo da 45 anni, e sia io che i miei figli abbiamo fatto qui il nostro bar-mitzvà; mia mamma, da bambina, veniva a scuola qui. Questo luogo è un pezzo della mia vita, mi sento come a casa mia. C’è una affettività diffusa, un ambiente che ti fa sentire a tuo agio, ti senti parte di una grande famiglia. Questo tempio è sopravvissuto a mille intemperie, queste mura hanno visto passare la Grande Storia. Ogni venerdì si cerca di fare minian, vorremmo invitare tutti a venire per vivere un’esperienza ebraica particolare, anche chi non conosce questo tempio: la Tefillà è stupenda, commovente», spiega Daniele Misrachi.
Una sinagoga frequentata oggi anche da famiglie miste. La frequentazione del tempio diventa così un elemento educativo e di conoscenza ebraica, e aiuta nell’educazione dei figli e nella realizzazione di un ambiente ebraico in casa. Molte persone in percorso di ghiur, che vivono lontane dal tempio Centrale di via Guastalla, vengono qui. Tra queste mura, tutti si sentono coccolati. Nessuno viene respinto. L’ortodossia è solare, come lo è il rav che officia tutte le settimane, Richetti. Una ortodossia che, seguendo le linee guida dell’ufficio rabbinico, si vuole sorridente, mite, affabile.

 

Un’atmosfera da antica Comunità
Inaugurato ufficialmente nel 1963, il Bet haKnesset di via Eupili (Beth Yossef ve Eliahu in ricordo dei primi parnassìm, il Professor Yossef Colombo zl. e di Rav Eliau Kopciowski zl.) irradia ancora l’atmosfera di Piccola Comunità che aveva un tempo, quando esisteva semplicemente la scola dove si pregava e si studiava. L’ispiratore di questa iniziativa fu Rav Kopciowski con l’aiuto di Eugenio Mortara zl. che sostenne tutte le spese per la ristrutturazione, su progetto dell’Architetto Luciano Consigli, dei locali della vecchia scuola materna della Comunità. Per la prima volta nell’ebraismo milanese di rito italiano un Beth Haknesset iniziò e continua ancora dopo tanti anni, un’attività indipendente dai bilanci della Comunità e senza alcun peso per le tasche dei contribuenti (salvo utenze e manutenzione).

 

 

 

Ringraziamo di cuore per l’articolo dedicato al nostro Tempio.

L’articolo esprime nel migliore dei modi gli aspetti positivi del Bet Hakneset, in particolare la tradizione di accoglienza verso gli ospiti e verso i frequentatori stessi.
Come giustamente segnalato, il nostro Tempio si rifà alla tradizione dell’ebraismo ortodosso italiano e, negli anni esso è diventato un Beth Haknesset “autogestito” nel quale, chiunque osserva lo Shabbath e le regole della kasheruth, può essere hazan ed officiare perfino durante le festività.
Riteniamo doveroso fare una piccola precisazione riguardo all’impressione generale che un lettore, che non vive il Tempio di Eupili, potrebbe recepire dalla sola lettura dell’articolo.
Infatti, è stata data forte enfasi al fatto che la Derashà sia spesso tenuta da una donna, cosa che in realtà è accaduta solo tre volte in cinquantacinque anni.
Il forte risalto su questo aspetto potrebbe erroneamente dare adito all’idea che il Tempio di Eupili abbia la volontà di rifarsi a modelli che, anche marginalmente, possano staccarsi dal modello ortodosso.
Ciò non corrisponde alle aspettative dei frequentatori del Tempio, né tantomeno alla visione di Rav Richetti (Rabbino del Tempio) e di Rav Arbib (Rabbino Capo della Comunità ebraica di Milano e dal quale il nostro Tempio dipende) oppure alla volontà di questo o precedenti consigli direttivi del Tempio.
Ringraziamo ancora per lo splendido articolo ed anche per averci riservato il posto d’onore di prima Sinagoga intervistata, nella lunga serie dei diciotto Templi della Comunità di Milano.

Il Consiglio del Tempio di via Eupili