Talmud: “Se in città c’è una pestilenza ritira i tuoi passi”, cioè: chiuditi in casa

di Rav Alberto Somekh

Che cosa ci racconta la Torà sul modo in cui il popolo ebraico affrontava le malattie epidemiche? E qual è la linea guida dell’ebraismo per la protezione della salute individuale e collettiva?

Gam zeh ya’avor, “anche questo passerà”

Oltre alla prescrizione di ordine generale: wenishmartem meod le-nafshoteykem (Devarim 4,4) per cui dobbiamo salvaguardare le nostre persone, i Maestri del Talmud affermano: chamira sakkanta me-issura (Chullin 10), “il rischio per la salute richiede maggior attenzione e rigore comportamentale rispetto agli stessi normali divieti della Torah”. Ma credo che il passo talmudico più significativo per la nostra presente situazione sia il seguente: dever ba-‘ir – kannès raglekha (Bavà Qammà 60): “se in città c’è una pestilenza ritira i tuoi passi”, cioè: chiuditi in casa. Il Talmud porta ben tre versetti a supporto di questa raccomandazione. Il primo è tratto dal racconto dell’ultima piaga d’Egitto, la morte dei primogeniti, scoppiata a mezzanotte. Agli Ebrei fu richiesto di non uscir di casa fino al mattino (Shemot 12,27), perché una volta che il morbo colpisce potrebbe non fare più distinzioni. E qualora pensassimo che la restrizione è in vigore solo di notte arriva un altro versetto: “Va’ popolo mio, entra nelle tue stanze, chiuditi la porta dietro finché non sarà passata l’ira Divina” (Yesha’yahu 26,20). E qualora pensassimo ancora che potrebbe farci bene uscire insieme agli altri per vincere il timore all’interno, ricordiamoci che “fuori uccide la spada (della malattia) mentre nelle stanze si ha paura” (Devarim 32,25). Le recenti disposizioni governative sono dunque perfettamente in linea con la nostra Tradizione e vanno rispettate. Chi esce di casa senza motivo non si limita a infrangere una legge dello Stato. Infrange la Halakhah.

 

Voglio fare un’ulteriore puntualizzazione. Vedere le nostre Sinagoghe chiuse addolora profondamente. Ma se queste sono le disposizioni vigenti non dobbiamo per forza ostinarci a fare come se nulla fosse. Confidare in H. non significa trascurare ciò che umanamente siamo tenuti a fare per preservare la salute nostra e degli altri. La Tefillah pubblica e la lettura della Torah, per quanto le abbiamo a cuore, sono solo prescrizioni rabbiniche. Tutti ricordiamo Monsignor Mazenta dei Promessi Sposi che durante la peste manzoniana moltiplicava le processioni e così diffondeva la malattia. Si racconta che R. Israel Salanter, fondatore del movimento Mussar, durante l’epidemia di colera che infestò la Lituania nel 1848, la mattina di Kippur nella Grande Sinagoga di Vilna recitò il Qiddush come se fosse stato un Sabato normale e si mise a mangiare davanti a tutti, nello sconcerto generale.

Che cosa possiamo imparare come ebrei da una situazione di emergenza sanitaria come quella che stiamo attraversando?

Dobbiamo mettere a frutto questo periodo di clausura. Anzitutto approfittarne per studiare. In secondo luogo dobbiamo imparare a sviluppare la dimensione domestica dell’Ebraismo, che per molti si è persa nel tempo, dal momento che quella comunitaria, cui siamo ormai abituati ad affidarci, non è al momento disponibile. Ma soprattutto dobbiamo imparare a gestire prudenza e pazienza. Pazienza verso l’esterno per via della reclusione forzata. Ma anche e soprattutto pazienza verso l’interno, verso gli altri membri della famiglia con cui ora siamo costretti a condividere spazi e tempi assai aldilà delle nostre normali abitudini. Il Ben Ish Chay di Baghdad raccomanda che in particolare la vigilia di Rosh ha-Shanah i coniugi non litighino sui preparativi della festa, perché è questa l’ennesima prova cui li sottopone l’istinto del Male e occorre resistergli. Perché proprio a Rosh ha-Shanah? Perché è Yom ha-Din, il giorno del giudizio. Anche noi oggi stiamo vivendo un periodo di Din, in cui siamo sottoposti al Giudizio Divino. Lo stesso Ben Ish Chay racconta che portava al dito un anello su cui era incisa la scritta: Gam zeh ya’avor, “anche questo passerà”. Nei periodi lieti lo guardava ed evitava l’orgoglio pensando che le gioie terrene hanno comunque un limite. Ma anche nei periodi tristi lo osservava e diceva: “anche questo passerà” e lascerà spazio a qualcosa di differente. Le-fum tza’arà agrà, “in misura della sofferenza sarà la ricompensa”. Confidiamo che il buon D. abbia in serbo per il nostro futuro un bene che ora non siamo minimamente in grado di immaginare. Che possiamo udire solo buone notizie!