di Anna Balestrieri
Presentato alla Quinzaine des Cinéastes del Festival di Cannes 2025, Yes, il nuovo film del regista israeliano Nadav Lapid, è un’opera corrosiva e vertiginosa che dà voce alla frattura profonda dell’identità israeliana dopo il 7 ottobre. Quattro anni dopo il premiato Ahed’s Knee, Lapid torna con un film che è insieme allegoria politica, confessione personale e atto d’accusa: un’opera che non cerca compromessi, ma affonda lo sguardo nella carne viva del presente.
In un’edizione del festival in cui molti titoli affrontavano il tema del potere e dell’oppressione, Yes ha colpito per il suo tono ironico, l’energia autodistruttiva e la sua capacità di inglobare lo spettatore nel vortice emotivo che rappresenta. “Un film assurdo e satirico, disperato ed esuberante allo stesso tempo, sottile come una cannonata nel modo in cui fa a pezzi le classi dirigenti e chi si piega ai loro voleri”, scrive il critico Guy Lodge, che ne coglie la furia incontenibile e l’assurdità calcolata.
La trama e l’aspetto autobiografico
Il protagonista Y. – alter ego dichiarato del regista – è un musicista disposto a tutto pur di mantenere la sua famiglia, persino a comporre un nuovo inno nazionale che celebra apertamente la distruzione della Palestina. La sua traiettoria morale discendente si accompagna a una messa in scena sempre più grottesca e febbrile, che porta in scena un’Israele allucinata e contraddittoria. Accanto a lui, la compagna – una danzatrice interpretata con magnetismo da Efrat Dor – partecipa inizialmente alla deriva, prima di opporvisi.
Il film si apre con una scena surreale in cui il protagonista è invitato a “lasciar vincere il Capo di Stato Maggiore” a un karaoke party: da qui in poi, la realtà si dissolve in una serie di sequenze visionarie, canzoni pop remixate e gesti disperati mascherati da cabaret. “Anche rispetto alle attese già alte, Yes sorprende per l’intensità sputata della sua rabbia contro lo Stato”, sottolinea ancora Lodge, evidenziando la forza disarmante con cui Lapid mette in scena l’amoralità del protagonista e l’assuefazione collettiva.
Ma Yes è più di una satira: è un test emotivo. Lo spettatore è chiamato a giudicare ciò che vede – e a interrogarsi sul proprio sguardo. Il film non deride direttamente gli slogan che mette in scena, ma li lascia vibrare nel vuoto, offrendoli come specchi: chi li detesta, forse detesta ciò che rappresentano; chi li accetta, forse ha smesso di lottare. In questo senso, Yes è una trappola artistica perfetta.
Lapid porta sullo schermo anche la sua vita personale: accanto a lui recita la sua compagna Naama Preiss, e il figlio Noah compare in alcune scene. È un’esposizione radicale, in cui la riflessione sull’arte si intreccia a quella sulla genitorialità, sulla vergogna e sull’appartenenza. Il film mostra come l’arte critica, quando diventa solo intrattenimento o provocazione sterile, finisca anch’essa tra le vittime della crisi.
La reazione del pubblico
La reazione del pubblico internazionale è stata calorosa, ma la vera prova sarà quella della platea israeliana. Come scrive Lodge: Yes è “una commedia assurda e un pamphlet grave come un cancro – per quanto un film con una lunga coreografia su The Ketchup Song possa esserlo.” Una definizione che ne coglie lo spirito tragico e grottesco: ridere, sì, ma con le mascelle serrate.
Con Yes, Nadav Lapid firma il suo film più feroce e personale, un atto d’accusa e insieme una richiesta disperata di senso. Nessuna risposta, solo ferite esposte. E una domanda che ci riguarda tutti: cosa vuol dire, oggi, dire sì?